Roma città aperta, via Rasella e la verità della Resistenza


Roma città aperta è molto più di un film: è un documento morale, una testimonianza civile, un atto di memoria che ha segnato la nascita del cinema italiano del dopoguerra, e al tempo stesso ha contribuito a costruire il racconto collettivo della Resistenza. Girato da Roberto Rossellini nell'estate del millenovecentoquarantaquattro, pochi mesi dopo la liberazione di Roma, il film si svolge durante l'occupazione tedesca della capitale, e racconta storie che non sono frutto di invenzione, ma derivano direttamente dalla realtà vissuta dai romani tra l'autunno del millenovecentoquarantatré e la primavera successiva.

La protagonista femminile, interpretata da un'intensa Anna Magnani, si chiama Pina. È una donna incinta, una borgatara che cerca di sopravvivere in un quartiere popolare della periferia, mentre il suo compagno Francesco – tipografo e militante antifascista – vive nascosto, ricercato dai nazisti. Quando Francesco viene arrestato, Pina corre verso di lui stringendo una pagnotta sotto il braccio, ma viene uccisa da una raffica di mitra in mezzo alla strada. Quella scena, che Rossellini girò con una crudezza quasi documentaria, non è simbolica: è realmente accaduta. Una donna romana, incinta, fu uccisa in circostanze analoghe mentre portava del pane al marito incarcerato. Quel gesto spezzato, quella corsa interrotta, è una delle immagini più forti della Resistenza civile, incarnata da chi non impugnava armi, ma non per questo era meno esposto alla violenza dell'occupazione.

Accanto a lei, nella narrazione cinematografica, c'è Don Pietro interpetato da Aldi Fabrizi, sacerdote carismatico, antifascista, figura morale che sostiene i partigiani e si oppone con mezzi spirituali e materiali al regime. Viene arrestato, torturato e infine fucilato dai tedeschi. Anche in questo caso, Rossellini si ispira a una figura reale: Don Pietro Pappagallo, sacerdote della Chiesa romana, che aiutava ebrei, disertori, perseguitati politici, e che fu ucciso il ventiquattro marzo del millenovecentoquarantaquattro durante l'eccidio delle Fosse Ardeatine.

Eppure, nel film, né la strage delle Fosse Ardeatine né l'attentato di via Rasella che l'ha scatenata vengono mai nominati. L'assenza non è casuale, e tanto meno neutrale. Come ha ricostruito lo storico del cinema Stefano Roncoroni, la sceneggiatura originale prevedeva un riferimento esplicito a quei fatti, ma la decisione fu modificata in corso d'opera a causa delle profonde divisioni politiche che già allora circondavano quell'azione partigiana. Il Partito Comunista, rappresentato dallo sceneggiatore Sergio Amidei, la considerava un atto di guerra legittimo, altri, come il co-sceneggiatore Ferruccio Disnan, la ritenevano un gesto impulsivo, privo di utilità strategica e pericoloso per la popolazione civile. Rossellini, consapevole della fragilità del tessuto sociale italiano, optò per un racconto che si limitasse a evocare senza specificare, a suggerire senza dichiarare.

Ma oggi, a distanza di ottant'anni, possiamo e dobbiamo restituire a quei fatti la loro verità storica. L'attentato di via Rasella, compiuto il ventitré marzo del millenovecentoquarantaquattro, fu un'azione militare condotta da diciassette partigiani, uomini e donne appartenenti ai Gruppi di Azione Patriottica organizzati dal Partito Comunista Italiano. L'obiettivo era una compagnia del reparto"Bozen" armato in assetto da guerra, dotato di mitragliatrici e bombe a mano, che partecipava attivamente al controllo repressivo della città. Non si trattava, come è stato in seguito falsamente sostenuto, di una banda musicale o di inoffensivi riservisti. Si trattava di soldati armati, e l'attacco fu pianificato con rigore militare, approvato dalla giunta del Comitato di Liberazione Nazionale, e inserito nell'ambito delle azioni richieste dal comando alleato per indebolire l'occupazione tedesca nelle città italiane.

Nell'attentato morirono trentatré militari tedeschi, e altri furono feriti, in un'azione che – come sottolineerà lo stesso generale Alexander, comandante delle forze alleate nel Mediterraneo – dimostrò che Roma era una città che non aveva accettato passivamente l'occupazione, ma che osava colpire il nemico anche nel cuore della sua presenza militare.

Il giorno successivo, ventiquattro marzo, i tedeschi misero in atto la rappresaglia più feroce mai compiuta sul fronte occidentale: trecentotrentacinque italiani furono uccisi con un colpo alla nuca nelle cave delle Ardeatine. Tra loro, ebrei, partigiani, militari, civili, comunisti, sacerdoti. L'eccidio fu condotto nel più assoluto segreto. Nessun appello fu rivolto ai responsabili dell'attentato. Nessun manifesto fu affisso. Non vi fu richiesta di consegna, né pubblica né riservata. Come ha spiegato con chiarezza lo storico Alessandro Barbero in una delle sue lezioni più documentate, l'intera operazione fu preparata in fretta per ordine diretto di Hitler, e nessuno tra i comandanti tedeschi – né Kappler, né Kesselring, né Melzer – pensò di ricorrere alla via della resa. Al processo, Kappler stesso dichiarò che era impensabile cercare i colpevoli perché, a suo dire, la popolazione li avrebbe nascosti. La leggenda secondo cui i partigiani avrebbero potuto evitare la strage presentandosi è una costruzione propagandistica, nata nei giorni immediatamente successivi all'attentato, e ripresa per la prima volta proprio da un editoriale dell'Osservatore Romano, che definì i partigiani "terroristi" e descrisse i militari del "Bozen" come vittime innocenti, contribuendo fin da subito a rovesciare la percezione pubblica dei fatti.

Nel film di Rossellini tutto questo non viene detto, ma si avverte. La città che mostra è la città dell'attesa e della paura, ma anche della ribellione. Le strade, i cortili, i tram, gli androni, tutto vibra di una tensione che è quella della Roma occupata, dove ogni gesto quotidiano – portare una pagnotta, nascondere un documento, offrire un rifugio – può diventare un atto di lotta o un motivo per essere uccisi. Il venticinque aprile, in questo senso, non è solo la data della Liberazione nazionale, ma anche il momento in cui si decide che cosa si vuole ricordare, e come.

Guardando oggi Roma città aperta, non possiamo fermarci alla commozione per la morte di Pina o alla dignità con cui Don Pietro affronta il plotone d'esecuzione. Dobbiamo riconoscere che ciò che il film non mostra – via Rasella, le Fosse Ardeatine, la macchina della repressione tedesca – è parte integrante della sua verità. E che la memoria della Resistenza, per essere viva, non può eludere la complessità, né temere la chiarezza dei fatti.

Il coraggio di quei ragazzi, la lucidità con cui pianificarono l'attacco, la consapevolezza del rischio, la rete clandestina che li sostenne, le donne che combatterono accanto a loro, tutto questo è parte della stessa storia che il film, con straordinaria intensità, ci consegna. Una storia che non accetta semplificazioni, che non si lascia addolcire, e che continua a chiederci, ogni anno, ogni venticinque aprile, da che parte vogliamo stare.

Sasha Bazzov


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