Profondo Rosso

  • Data di uscita: 7 marzo 1975 (Italia), 11 giugno 1976 (Stati Uniti)
  • Regista: Dario Argento
  • Sceneggiatura: Dario Argento, Bernardino Zapponi
  • Budget: 1,4 miliardi di lire
  • Effetti speciali: Germano Natali, Carlo Rambaldi
  • Fotografia: Luigi Kuveiller
  • Montaggio: Franco Fraticelli
  • Colonna sonora: Goblin, Giorgio Gaslini
  • Scenografia: Giuseppe Bassan
  • Costumi: Marisa Crimi
  • Produzione: Seda Spettacoli, Rizzoli Film
  • Distribuzione: Cineriz (Italia), Anchor Bay Entertainment (USA)
  • Cast: David Hemmings, Daria Nicolodi, Gabriele Lavia, Macha Méril, Eros Pagni, Giuliana Calandra, Glauco Mauri, Clara Calamai

  • Cinquant'anni di Terrore, Arte e Visione

    Il 7 marzo 1975 segna un punto di svolta nella storia del cinema italiano con l'uscita di Profondo Rosso, il film che ridefinisce il concetto di thriller e ne amplifica le possibilità espressive fino a farlo collidere con l'horror più viscerale. In questa opera, Dario Argento non si limita a perfezionare il linguaggio del giallo all'italiana, ma lo trasforma in un'esperienza sensoriale totalizzante, un labirinto di illusioni e presagi, dove l'estetica diviene la chiave d'accesso a un mondo in cui la paura è un sentimento tangibile, quasi fisico.

    La pellicola si inserisce in un contesto cinematografico che, negli anni '70, sta attraversando profonde mutazioni. Il thriller europeo ha già conosciuto i sussulti innovativi di Mario Bava con Sei donne per l'assassino (1964), un'opera che ha codificato l'uso espressivo del colore e della messa in scena barocca, e che ha anticipato molte delle soluzioni stilistiche che Argento avrebbe portato all'estremo. Contestualmente, il cinema americano sta ridisegnando i confini del genere con film come Psycho (1960) di Alfred Hitchcock e The Texas Chain Saw Massacre (1974) di Tobe Hooper, opere che, seppur diverse, convergono nell'idea di un terrore radicato nella psicologia e nell'ambiente.

    In questo panorama, Profondo Rosso si erge come un punto di rottura. Argento non si accontenta di narrare un'indagine su una serie di omicidi: costruisce una messa in scena che diventa essa stessa il fulcro dell'esperienza cinematografica. La realtà viene destrutturata attraverso un uso audace della macchina da presa, che si insinua tra gli ambienti con angolazioni impossibili, cattura dettagli apparentemente insignificanti che si rivelano fondamentali e avvolge lo spettatore in un senso di spaesamento continuo. Il film non si limita a raccontare una storia, ma la dissolve, la frantuma in frammenti di immagini e suoni che si sovrappongono come in un incubo lucido.

    A distanza di cinquant'anni, Profondo Rosso non è soltanto un'opera di culto, ma un documento vivente della capacità del cinema di trascendere i suoi stessi limiti. Ancora oggi, la sua influenza è percepibile nel linguaggio visivo di registi come Nicolas Winding Refn, nel manierismo estetico di Suspiria (2018) di Luca Guadagnino, nelle spietate geometrie cromatiche di The Neon Demon (2016). L'uso del colore come veicolo narrativo, la musica che non accompagna ma aggredisce, la costruzione dell'inquadratura come elemento di suggestione ipnotica: tutti elementi che trovano in Profondo Rosso una delle loro più alte espressioni.

    Il film di Argento non è soltanto un thriller, non è semplicemente un horror: è un'opera che riflette sulla percezione stessa della realtà, sui meccanismi della memoria e sulla fragilità della razionalità umana. Ogni immagine è un enigma, ogni ombra cela un inganno, e lo spettatore si ritrova prigioniero di una visione che lo sfida a decifrare i segreti nascosti nel quadro.

    A cinquant'anni dalla sua uscita, Profondo Rosso continua a esercitare il suo potere perturbante, un'opera che non si lascia imbrigliare in definizioni statiche, ma che si espande e si reinventa a ogni visione, come un incubo che si rifiuta di svanire.

    La Genesi di un Capolavoro

    Dario Argento giunge alla concezione di Profondo Rosso in un periodo di trasformazione artistica, spinto dall'esigenza di superare le convenzioni del giallo all'italiana e di ampliare il proprio orizzonte creativo. Reduce dal successo della sua Trilogia degli Animali (L'uccello dalle piume di cristallo, Il gatto a nove code, Quattro mosche di velluto grigio), il regista avverte il bisogno di un mutamento, di un'opera che non si accontenti di reiterare le formule del passato ma che le destrutturi, le contamini e le porti verso una dimensione più oscura e visionaria.

    L'intuizione arriva durante la lavorazione de Le cinque giornate (1973), un film che rappresenta un'anomalia nella sua filmografia: un dramma storico, privo delle tensioni e delle atmosfere perturbanti che caratterizzano il suo stile. Eppure, proprio in quella parentesi si insinua l'idea di un'opera che possa coniugare il rigore narrativo del thriller con un immaginario fatto di percezioni ingannevoli, presagi inquietanti e una logica che si sfalda sotto il peso dell'irrazionale.

    A dare forma a questa visione contribuisce Bernardino Zapponi, sceneggiatore prolifico e collaboratore di Federico Fellini in film come Roma e Toby Dammit. L'incontro tra i due genera una scrittura che alterna momenti di realismo tagliente a squarci di puro incubo. Zapponi porta nel progetto una solida struttura narrativa, mentre Argento introduce elementi di perturbazione, distorsione sensoriale e una costruzione del mistero che si basa più sulle suggestioni che sulla linearità degli eventi. Ne scaturisce una sceneggiatura imponente, che nelle prime stesure supera le 300 pagine, un vero e proprio romanzo per immagini in cui ogni dettaglio è studiato per insinuarsi nella mente dello spettatore.

    L'idea di base è quella di un protagonista che, suo malgrado, diviene testimone di un evento che lo ossessiona, un uomo costretto a rivedere la realtà attraverso frammenti di memoria che si riorganizzano in modo ambiguo. Il pianista Marc Daly è il veicolo di questa esperienza labirintica: un personaggio che non è un investigatore di professione, ma che viene trascinato in un'indagine dove la logica si sgretola a ogni passo. Questo approccio rappresenta una deviazione rispetto ai gialli tradizionali, in cui l'investigazione segue un percorso deduttivo rigoroso. Qui, invece, la scoperta della verità diventa un'esperienza sensoriale, una progressiva immersione in un incubo in cui nulla è come appare.

    Il simbolismo gioca un ruolo chiave nella costruzione della storia. Il rosso, colore onnipresente nel film, non è solo un richiamo al sangue, ma un elemento che permea la scenografia, la fotografia e persino la psicologia dei personaggi. Il tema dell'arte e della rappresentazione è altrettanto centrale: teatri, quadri, sculture e perfino la musica diventano elementi narrativi, veicoli di indizi nascosti o di rivelazioni inattese.

    In questa fase di gestazione, Profondo Rosso attraversa diverse identità. Il titolo provvisorio La tigre dai denti a sciabola sembrava voler ricalcare la tradizione zoologica della Trilogia degli Animali, un tentativo che viene presto accantonato. Un altro nome ipotizzato, Chipsiomega, gioca con l'idea dell'enigma, evocando le lettere finali dell'alfabeto greco, ma manca della potenza evocativa necessaria. Sarà infine il colore dominante della pellicola a suggerire il titolo definitivo, che sintetizza in due parole il cuore pulsante dell'opera: un'immersione totale in un universo di sangue e mistero.

    L'elaborazione della sceneggiatura segna l'inizio di un percorso che porterà Profondo Rosso a diventare qualcosa di più di un semplice film di genere. Il suo sviluppo è il risultato di una ricerca espressiva che mira a trascendere le convenzioni, a creare un'opera che viva di suggestioni, di dettagli impercettibili, di una tensione che nasce non solo dagli eventi, ma dalla loro rappresentazione. Un film che non si accontenta di raccontare un mistero, ma che si insinua nella mente dello spettatore, trasformando ogni inquadratura in un enigma da decifrare.

    Il Making Of: Tra Visione e Ossessione

    Se Profondo Rosso è oggi una delle pietre miliari del cinema di genere, lo deve non soltanto alla sua sceneggiatura stratificata e alla sua estetica inconfondibile, ma anche a un processo produttivo che ha richiesto un'attenzione maniacale a ogni singolo dettaglio. La creazione del film è stata un continuo esercizio di sperimentazione, in cui Dario Argento ha affinato il proprio linguaggio visivo e sonoro, spingendo la macchina-cinema verso territori inesplorati.

    Le riprese furono un processo meticoloso, un vero e proprio laboratorio di sperimentazione cinematografica. Argento, ossessionato dal desiderio di costruire un'esperienza sensoriale totalizzante, rivoluzionò la grammatica del thriller attraverso l'uso di movimenti di macchina audaci, giochi di luce destabilizzanti e un'estetica cromatica che amplificava il senso di irrealtà. La soggettiva, già impiegata nei suoi film precedenti, qui diventa uno strumento di manipolazione percettiva: lo spettatore è costretto a guardare attraverso gli occhi dell'assassino, ma anche a perdersi nei dettagli che sfuggono al protagonista, Marc Daly.

    L'impiego delle lenti grandangolari contribuisce a deformare la realtà, creando una sensazione di spaesamento costante. Gli ambienti diventano spazi minacciosi, in cui le prospettive si allungano e gli oggetti sembrano acquisire una presenza inquietante. Il film gioca con la percezione dello spettatore, nascondendo elementi fondamentali in piena vista – un meccanismo che culmina nella rivelazione finale, quando il protagonista realizza di aver già visto il volto dell'assassino senza rendersene conto.

    Un altro aspetto cruciale della riuscita del film è la scelta del cast. Per il ruolo di Marc Daly, Argento si affida a David Hemmings, attore già noto per la sua interpretazione in Blow-Up (1966) di Michelangelo Antonioni. La scelta non è casuale: Blow-Up è un film che riflette sul tema della visione e della memoria, concetti che Profondo Rosso riprende e distorce in chiave horror. Hemmings, con il suo volto inquieto e la sua interpretazione misurata, incarna perfettamente un uomo la cui razionalità viene progressivamente messa in crisi dall'orrore e dall'incapacità di decifrare ciò che ha visto.

    Accanto a lui, Daria Nicolodi porta sullo schermo una Gianna Brezzi ironica e carismatica, una figura femminile che sfugge agli stereotipi tradizionali del genere. La sua interpretazione è il risultato di un'alchimia perfetta tra finzione e realtà: nel corso delle riprese, infatti, tra Nicolodi e Argento nasce una relazione destinata a influenzare profondamente il cinema del regista. È lei a introdurlo al mondo dell'occulto e delle leggende esoteriche, suggestioni che avrebbero trovato piena espressione in Suspiria (1977).

    Ogni elemento del set è studiato per amplificare il senso di angoscia e di instabilità. Le scenografie, curate nei minimi dettagli, trasformano gli spazi in labirinti simbolici: la villa dell'assassino, con le sue stanze segrete, diventa una metafora della mente umana, un luogo in cui il passato è letteralmente murato dietro le pareti. La fotografia, firmata da Luigi Kuveiller, sfrutta contrasti netti tra ombre e luci acide, creando un'atmosfera che sembra anticipare l'estetica del cinema di David Lynch.

    L'ossessione di Argento per il controllo totale della messa in scena si manifesta anche nelle riprese degli omicidi, che vengono coreografati come sequenze quasi rituali. Ogni delitto è un'opera d'arte macabra, costruita con un'attenzione pittorica alla composizione dell'inquadratura. Il regista non si accontenta di mostrare la violenza: la rende ipnotica, la trasforma in un'esperienza estetica che attrae e respinge allo stesso tempo.

    Curiosità e Segreti sul Set

    Se Profondo Rosso è un'esperienza visiva e sonora che continua a inquietare e affascinare, lo si deve anche a una serie di intuizioni geniali e scelte creative che hanno contribuito a renderlo un'opera irripetibile. Ogni elemento del film, dai dettagli apparentemente marginali alla costruzione delle sequenze più iconiche, è frutto di una ricerca maniacale volta a scolpire nell'immaginario collettivo un incubo dal quale è impossibile distogliere lo sguardo.

    Uno degli aspetti più riconoscibili del film è senza dubbio il macabro pupazzo che appare in una delle scene più disturbanti. Questa marionetta, con il suo sorriso innaturale e il suo movimento spastico, è un perfetto esempio della capacità di Argento di trasformare oggetti innocenti in veicoli di puro terrore. Il pupazzo non è solo un espediente per aumentare la tensione, ma un simbolo dell'infanzia deformata, della paura che si insinua nei ricordi e li corrompe. La sua apparizione è un momento di turbamento primordiale, un'anticipazione del gusto per il perturbante che il regista avrebbe sviluppato ancora di più in Suspiria (1977) e Inferno (1980), dove bambole, visioni infantili e oggetti animati dal male diventano parte integrante della narrazione.

    Ma se il pupazzo rappresenta l'incubo che si materializza, la scena del riflesso è l'esempio perfetto della maestria con cui Argento gioca con la percezione dello spettatore. Fin dai primi minuti del film, il volto dell'assassino viene mostrato chiaramente, riflesso in uno specchio, ma in modo così rapido e furtivo da sfuggire alla nostra attenzione. Solo alla fine, quando il protagonista ricostruisce l'evento, ci rendiamo conto che la verità era sempre stata davanti ai nostri occhi. Questo meccanismo è un omaggio alla capacità del cinema di manipolare la visione e di nascondere il significato sotto la superficie dell'immagine, un principio che trova eco nel cinema di registi come Brian De Palma, maestro nell'uso di riflessi e inganni visivi, o David Lynch, che nella sua filmografia ha continuamente giocato con la percezione e la memoria.

    Un'altra curiosità riguarda la scelta della colonna sonora, un elemento fondamentale nella costruzione dell'atmosfera del film. Inizialmente, Argento desiderava lavorare con i Deep Purple o Emerson, Lake & Palmer, band che in quegli anni erano al vertice della scena rock. Tuttavia, problemi logistici ed economici resero impossibile la collaborazione. Fu Daria Nicolodi a suggerire i Goblin, un gruppo progressive rock emergente che, sotto la guida di Claudio Simonetti, riuscì a creare un accompagnamento musicale tanto ipnotico quanto disturbante.

    Il tema principale, con il suo incedere ossessivo e la commistione tra elettronica, organo e sonorità barocche, ha rivoluzionato il modo di concepire la musica nel thriller e nell'horror. Non si tratta di un semplice commento sonoro, ma di un elemento narrativo che amplifica il senso di angoscia e anticipa il pericolo. L'impatto della colonna sonora di Profondo Rosso è stato così profondo da influenzare persino John Carpenter, che si ispirò a queste sonorità per il tema di Halloween (1978), creando un altro dei leitmotiv più celebri della storia del cinema.

    Ogni scelta, ogni dettaglio di Profondo Rosso è il risultato di un processo creativo che si muove tra intuizione e ossessione. Nulla è lasciato al caso, e il film si configura come un meccanismo perfetto in cui l'estetica, la musica e la narrazione si intrecciano in un gioco di specchi che continua a riflettersi nel cinema contemporaneo. È questa la vera essenza del suo fascino: la capacità di insinuarsi nella mente dello spettatore e di restarci, come un frammento di sogno che si rifiuta di dissolversi.

    L'Impatto e l'Eredità di Profondo Rosso

    Quando Profondo Rosso uscì nelle sale nel 1975, il suo successo fu immediato e travolgente. Con un incasso superiore ai 2,7 miliardi di lire, il film si impose come il decimo più visto della stagione cinematografica italiana, consolidando la figura di Dario Argento come autentico innovatore del thriller e dell'horror. Ma il valore della pellicola non si esaurisce nei numeri: ciò che Profondo Rosso ha lasciato in eredità al cinema è qualcosa di più importante, una rivoluzione estetica e narrativa che ha ridefinito la grammatica del genere e influenzato generazioni di cineasti.

    Argento, con questa sua opera, realizza un punto di frattura. Il thriller all'italiana, che fino a quel momento si era mosso lungo i binari del giallo classico con contaminazioni hitchcockiane, si evolve in qualcosa di più complesso, un ibrido tra il poliziesco deduttivo e l'horror visionario. Se nei suoi film precedenti la tensione si basava su una costruzione narrativa meticolosa, qui è il linguaggio cinematografico stesso a diventare la fonte primaria della paura. Il regista abbandona progressivamente la logica della detection per immergere lo spettatore in un vortice sensoriale, in cui il terrore non è più un elemento esterno, ma una presenza costante, insinuata dentro le immagini, i colori, i suoni.

    L'eredità di Profondo Rosso è rintracciabile in una moltitudine di opere successive. Il suo uso espressivo della macchina da presa ha influenzato registi come Brian De Palma, che nelle sue opere thriller ha ripreso il gusto per i movimenti di macchina fluidi e spettacolari, così come il gioco con la soggettiva e i riflessi. L'estetica cromatica esasperata e l'uso del colore come veicolo narrativo troveranno eco nel cinema di Nicolas Winding Refn (Only God Forgives, The Neon Demon), mentre il senso di angoscia onirica e la costruzione dell'incubo come esperienza visiva saranno centrali nella filmografia di David Lynch, che con Mulholland Drive e Inland Empire riprende e amplifica il concetto di percezione ingannevole su cui si basa Profondo Rosso.

    Anche il cinema horror americano, pur muovendosi su coordinate diverse, non è rimasto immune all'influenza del capolavoro argentiano. John Carpenter ha dichiarato apertamente di essersi ispirato alla colonna sonora del film per la creazione del celebre tema musicale di Halloween (1978), riprendendone l'ossessività ritmica e la costruzione armonica minimale. Persino autori contemporanei come Ari Aster (Hereditary, Midsommar) e Robert Eggers (The Witch, The Lighthouse) sembrano aver ereditato la lezione di Argento, soprattutto nell'uso della messa in scena come elemento di tensione psicologica e nella costruzione di un horror che si nutre più dell'atmosfera che degli espedienti narrativi tradizionali.

    A distanza di cinquant'anni, Profondo Rosso non ha perso nulla del suo potere ipnotico. Ogni visione svela nuovi dettagli, nuove sfumature, nuovi enigmi nascosti tra le pieghe della narrazione e dell'immagine. La sua violenza non è mai gratuita, ma coreografata con un senso estetico che trasforma ogni omicidio in una sequenza pittorica, in cui il sangue diventa parte integrante della composizione visiva. Il suo ritmo, sospeso tra momenti di quiete apparente e improvvise esplosioni di terrore, continua a esercitare un fascino magnetico, capace di catturare anche chi lo ha già visto più volte.

    Profondo Rosso è un'opera che si rifiuta di essere catalogata in una sola definizione. È un giallo che si dissolve nell'horror, un thriller che si trasforma in un'esperienza allucinatoria, un film che gioca con la percezione come poche altre opere nella storia del cinema. Le sue immagini – i lunghi corridoi immersi nell'ombra, le mani guantate che impugnano lame affilate, gli occhi spalancati delle vittime nel momento della rivelazione – sono impresse nella memoria collettiva, simboli di un cinema che ha saputo trascendere il tempo e le mode.

    Non è un caso che, ancora oggi, il film continui a essere oggetto di studi, retrospettive e proiezioni speciali. Il suo restauro in 4K e le continue riedizioni testimoniano una vitalità che pochi film possono vantare. Profondo Rosso non è solo un'opera del passato: è un'entità che continua a vivere, a mutare, a insinuarsi nella mente degli spettatori, lasciandoli con la sensazione di aver visto qualcosa che sfugge alla comprensione razionale. Come un enigma che si rifiuta di essere risolto, come un incubo che ritorna.

    Sasha Bazzov


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