La Notte dei Morti Viventi - Oltre la mezzanotte: visioni (libere) per cinefili insonni

Data di uscita: 1 ottobre 1968

Regia: George A. Romero

Con: Duane Jones, Judith O'Dea, Karl Hardman, Marilyn Eastman, Keith Wayne.

Titolo internazionale: Night of the Living Dead

Genere: Horror, Thriller

Produzione: Stati Uniti

Durata: 96 minuti.

Il respiro ferale di un'epoca che si dissolve

Stanotte, nel silenzio lattiginoso delle ore più oscure, ci immergiamo in una pellicola che non è solo cinema, ma un veleno dolce, un sussurro radioattivo che ancora vibra nelle ossa della cultura contemporanea. "La notte dei morti viventi" (1968) di George A. Romero non è semplicemente un horror, né soltanto un film di zombie. È piuttosto una ferita aperta, un'istantanea brutale di un'America in bilico tra sogno e disincanto, tra progresso e catastrofe.

Gli anni Sessanta, quelli veri, quelli vissuti, non quelli romanzati, erano un vortice di speranza e di morte, di Woodstock e di Vietnam, di promesse e di tradimenti. C'era l'utopia, certo, ma c'era anche la guerra trasmessa in diretta TV, c'era l'assassinio di Martin Luther King, le strade in fiamme, il razzismo che non si accontentava più di essere sussurrato. E dentro tutto questo fermento, dentro il cuore di un'America che non sapeva più se credere nel futuro o temerlo, Romero costruisce il suo incubo.

Un film che parla di zombie? No. Un film che parla di noi. Di allora e di oggi. Perché i morti viventi non sono altro che il riflesso di una società che si divora da sola, incapace di comunicare, incapace di trovare un senso comune.

Eppure, tutto questo Romero lo fa con pochi soldi, con una troupe di amici e conoscenti, con attori non professionisti, con una fotografia sporca, granulosa, reale. Un film nato quasi per necessità, per il desiderio di dire qualcosa senza filtri, senza compromessi.

Il paradosso dell'immortalità: l'errore che consegnò il film all'eternità

C'è qualcosa di ironico, di quasi beffardo, nel destino di La notte dei morti viventi. Un film che parla di corpi resuscitati, di un'umanità che si spegne per poi tornare in vita sotto altre forme, si ritrova esso stesso a vivere una doppia esistenza: capolavoro indiscusso dell'horror moderno e, al contempo, opera priva di diritti, libera, disponibile per tutti sin dal suo primo respiro.

L'origine di questo paradosso è un dettaglio che sembra uscito da una sceneggiatura di Kafka: la casa di produzione di Romero, la Image Ten, dimenticò di includere l'avviso di copyright obbligatorio nei titoli di testa. Un errore che, secondo le leggi dell'epoca, consegnò il film immediatamente al pubblico dominio. In altre parole, chiunque poteva distribuirlo, copiarlo, modificarlo. Nessuna casa di produzione, nessuna major, nessun distributore avrebbe mai potuto reclamarne il possesso.

Eppure, nonostante questa libertà quasi anarchica, il film non si è disperso nel mare del tempo. Al contrario, si è radicato nel tessuto culturale, diffondendosi senza freni, proliferando come i suoi stessi morti viventi. Forse, proprio questa sua natura "di tutti" ha contribuito a renderlo immortale. Se fosse stato bloccato da lungaggini legali, se fosse rimasto ingabbiato in una struttura industriale, avrebbe avuto lo stesso impatto? Avrebbe raggiunto così tante generazioni senza ostacoli?

Ma mentre il film sfuggiva alle catene del copyright, gli zombie, quelli veri – o meglio, quelli cinematografici – venivano finalmente incatenati a una nuova idea. Perché se La notte dei morti viventi ha rivoluzionato il cinema dell'orrore, il merito è anche di una trasformazione profonda che Romero ha imposto alla figura dello zombie stesso.

Dalla magia al contagio: la nascita del morto vivente moderno

Prima del 1968, lo zombie era un concetto diverso. Era White Zombie (1932) con Bela Lugosi, era I Walked with a Zombie (1943) di Jacques Tourneur. Erano storie radicate nel folklore haitiano, dove il morto tornava in vita non per fame ma per sottomissione, vittima di una maledizione, di un padrone che lo usava come un burattino. Gli zombie erano schiavi, non predatori. Erano esseri senza volontà, controllati dalla magia nera, privi di autonomia.

Romero cambia tutto. Con un solo film, strappa lo zombie dalle sue origini esotiche e lo trapianta in una dimensione nuova, più vicina all'incubo sociale. I suoi morti non sono manovrati da uno stregone: si alzano da soli, spinti da una fame primordiale, cieca, animalesca. Non c'è più un padrone, non c'è più un burattinaio. La minaccia non è più un individuo con poteri occulti, ma la massa stessa degli zombie, un'orda che si muove senza logica apparente, come un riflesso oscuro della civiltà che li ha generati.

E soprattutto, Romero introduce una regola destinata a diventare legge per tutti i futuri film di zombie: il morso. Non più una resurrezione causata da riti esoterici, ma un'infezione, un contagio che si diffonde di corpo in corpo, un'epidemia che trasforma la morte in una condanna collettiva.

Da questo momento in poi, ogni zombie che verrà dopo La notte dei morti viventi non potrà più prescindere da questa rivoluzione. Da Dawn of the Dead (1978) a The Walking Dead, da 28 Days Later a World War Z, tutto nasce da qui. Da un film girato con pochi soldi, con amici e conoscenti, con una fotografia sporca e un bianco e nero che sembra un reportage di guerra. Ma la guerra, in fondo, era già in corso. Non solo sugli schermi, ma nelle strade. E Romero lo sapeva bene.

L'orrore in presa diretta: estetica e linguaggio cinematografico

C'è un'immediatezza brutale in La notte dei morti viventi, un realismo sporco che lo distingue da ogni altro horror dell'epoca. Romero non si affida a scenografie elaborate o a effetti speciali sofisticati: il suo film è grezzo, ruvido, come un notiziario improvvisato trasmesso da un mondo che sta collassando.

Il bianco e nero non è una scelta estetica nostalgica, né un omaggio ai classici dell'orrore. È una necessità economica, certo, ma anche una benedizione. Perché la fotografia granulosa, i contrasti netti tra buio e luce, l'assenza di colori, tutto contribuisce a creare una sensazione di documentario, di realtà intrappolata su pellicola. Non c'è il comfort della finzione, non c'è il sollievo del technicolor. C'è solo il bianco e nero delle vecchie foto di guerra, il bianco e nero dei reportage sul Vietnam che invadevano i telegiornali.

E poi c'è la cinepresa. Sempre troppo vicina, sempre a cogliere dettagli scomodi: il sudore sulla fronte, le mani che si stringono in pugni nervosi, gli occhi sgranati nel buio. Il montaggio è frenetico, disturbante, alterna campi lunghi che mostrano la solitudine dei personaggi a primi piani che li schiacciano, li soffocano.

La casa, teatro dell'assedio, è un microcosmo perfetto. È una tomba e un rifugio, un luogo che protegge e imprigiona. Ogni angolo è sfruttato per creare tensione, per suggerire la minaccia che avanza. E fuori, il buio è abitato da sagome che si muovono lentamente, senza fretta, senza emozione.

Romero non ha bisogno di spiegare troppo. Gli zombie non parlano, non hanno un'origine definita. Sono solo lì, inesorabili, come una condanna. E mentre dentro la casa gli umani litigano, si scontrano, si dividono, fuori la minaccia cresce, si moltiplica.

La notte dei morti viventi è un horror, sì, ma è anche un esperimento sociale, un'analisi della paura e della paranoia. Il vero terrore non è negli zombie, ma nei vivi, nella loro incapacità di collaborare, nella loro tendenza all'autodistruzione. E quando il film arriva al suo finale, non c'è catarsi, non c'è sollievo. C'è solo il rumore secco di un colpo di fucile. E il silenzio.

Un finale senza redenzione: il colpo di fucile che spegne ogni speranza

La fine di La notte dei morti viventi è una pugnalata, un trauma che non si dissolve con i titoli di coda.

Mentre l'alba si insinua nel cielo, mentre la notte si dissolve e la normalità sembra poter tornare, Ben sopravvive. Lui, più di tutti, ha dimostrato di essere razionale, di avere il controllo, di sapere cosa fare. È l'ultimo rimasto, ha resistito all'orda, ha superato il caos. Eppure, non basta.

Quando arrivano le squadre di soccorso, uomini armati che setacciano il territorio per ripulire l'area dagli zombie, non c'è esitazione. Non c'è nessun dialogo, nessun riconoscimento. Solo un mirino puntato, un dito che preme il grilletto. Un colpo che tuona e Ben crolla a terra.

E poi? Poi il silenzio. Il suo corpo trascinato via come quello dei mostri, accatastato tra gli altri cadaveri, bruciato in un falò senza cerimonia, senza onore.

Romero non concede nulla allo spettatore. Nessuna rivalsa, nessuna giustizia. Solo la freddezza di una morte senza senso. E la cosa più inquietante è che tutto questo non è enfatizzato, non è accompagnato da una colonna sonora drammatica o da un montaggio frenetico. È girato con la stessa crudezza di un reportage, come se fosse vero, come se fosse inevitabile.

È qui che la potenza del film si rivela in tutta la sua ferocia. Perché l'orrore non è nei morti che camminano. È nelle decisioni affrettate, nell'incapacità di distinguere un uomo da un mostro, nella superficialità con cui la vita può essere cancellata.

E allora lo spettatore rimane lì, con il fiato sospeso, con il cervello che cerca disperatamente un senso, un ordine, una spiegazione. Ma non c'è. E non ci sarà mai.

E ora, come sempre, la notte ci inghiotte. Il segnale si fa intermittente, lo schermo sfarfalla nel buio, e restiamo soli con le immagini che ancora bruciano dietro le palpebre. La notte dei morti viventi non è un film da guardare distrattamente, non è un horror da consumare e dimenticare. È un morso che resta, un'ombra che si allunga anche dopo la fine.

Fuori, il mondo sonnecchia, ignaro. Ma voi, che siete ancora svegli, che restate davanti allo schermo, in bilico tra il sonno e la veglia, sapete che certe notti non finiscono mai davvero. E allora, lasciamoci andare. La pellicola gira, i morti camminano, il tempo si dissolve. La notte è lunga. E noi siamo ancora qui.

Sasha Bazzov


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