I Nazisti Avevano Ragione?

Ecco fatto. Un titolo che è una trappola, un pugno nello stomaco, un insulto al buon senso. Se siete arrivati fin qui con il sangue che vi ribolle, bene: significa che avete ancora un minimo di coscienza civile. Eppure, prima di spegnere il cervello e lasciarvi andare all'indignazione automatica, fermatevi un attimo. Perché questa domanda, per quanto orribile, serve a smascherare una verità ancora più disgustosa: la nostra società, così fiera della sua presunta superiorità morale, si comporta in modi che, se visti senza il filtro della retorica, non sono poi così distanti dalle logiche di esclusione del passato.

Viviamo in un'epoca in cui l'ipocrisia è diventata un'arte. Ci riempiamo la bocca di parole come "inclusione", "uguaglianza", "diritti", ma poi facciamo finta di non vedere i senzatetto che dormono sui cartoni, i disabili bloccati in casa perché le città non sono accessibili, i malati lasciati a morire in attesa di una visita che arriverà – forse – tra due anni. Facciamo finta di non sapere che chi nasce povero ha molte più probabilità di restarlo, che l'ascensore sociale è rotto e che, se non sei abbastanza fortunato, la tua vita vale meno agli occhi di chi governa e decide.

La domanda, quindi, non è se i nazisti avessero ragione – perché non l'avevano, e su questo non ci piove. La vera domanda è: se li condanniamo senza appello, perché continuiamo a comportarci in un modo che, in sostanza, porta avanti la stessa selezione brutale, solo con metodi più discreti e linguaggio più raffinato?

La Realtà degli "Sfortunati" nella Società Moderna: Un'Ipocrisia Istituzionalizzata

Viviamo in un'epoca che si autoproclama giusta, equa, civilizzata. Abbiamo firmato trattati, scritto costituzioni, promulgato leggi che inneggiano alla dignità umana. Eppure, nella pratica, chi è povero, disabile o malato è trattato come un problema da nascondere sotto il tappeto. Non lo diciamo apertamente, perché sarebbe sconveniente, ma lo facciamo nei fatti. Il risultato? Una società che si crede superiore alle barbarie del passato, mentre perpetua un sistema che, con meno brutalità e più ipocrisia, ottiene lo stesso risultato: l'esclusione dei più deboli.

Ma non parliamo per slogan. Vediamo numeri, leggi, scandalose inadempienze.

La Povertà: Il Grande Crimine Senza Colpevoli e Senza Colpe 

L'Italia è un paese che non odia i poveri. Sarebbe troppo volgare, troppo scoperto, troppo poco elegante. No, l'Italia non li odia: semplicemente, li considera un disturbo, un'intrusione nella scenografia ben studiata della società civile. La povertà non è un problema, ma un fastidio estetico, un elemento di disturbo che rovina la prospettiva di città che si vogliono ordinate, pulite, impeccabili nelle loro vetrine scintillanti. Il povero non è un cittadino da aiutare, ma un errore da correggere, una macchia da cancellare con la forza della burocrazia, dell'urbanistica punitiva e della più antica delle armi: l'indifferenza.

Non c'è bisogno di denunciarli apertamente, di perseguitarli con dichiarazioni ufficiali o di istituire norme che li marchino a fuoco. È sufficiente rendere loro la vita impossibile. Si sgomberano i senzatetto dalle stazioni ferroviarie con operazioni di "decoro urbano", un eufemismo geniale che trasforma l'eliminazione degli indesiderati in una questione di estetica. Si eliminano le panchine affinché nessuno possa dormirci, si installano spuntoni di ferro sotto i portici per impedire che qualcuno osi ripararsi dalla pioggia, si vieta l'elemosina con ordinanze comunali mascherate da misure per la "sicurezza pubblica". E se proprio non si riesce a farli sparire, li si ignora, come si fa con un sacchetto dell'immondizia dimenticato per strada: si sa che è lì, ma si finge di non vederlo finché qualcuno non lo porta via.

Eppure, la nostra Costituzione, nel suo nobile articolo 3, proclama con solenni parole che tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di condizioni personali e sociali.

«Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese.»

Un principio astratto, poetico, rassicurante. Poi arriva la realtà, e con essa la statistica, che è sempre meno indulgente della retorica: secondo l'ISTAT, nel 2023 oltre 5,6 milioni di italiani vivevano in povertà assoluta. Non si tratta di persone che devono rinunciare a una settimana di vacanza o a un nuovo smartphone, ma di individui che non riescono a coprire i bisogni essenziali: cibo, affitto, bollette, cure mediche.

Il dato più spaventoso è quello che riguarda i bambini: il 14% dei minori italiani vive in condizioni di estrema difficoltà economica. In altre parole, quasi un bambino su sette cresce in un contesto in cui mancano non solo le opportunità, ma anche le basi per una vita dignitosa. Ma la povertà infantile non fa audience, non riempie le prime pagine dei giornali, non scuote le coscienze abbastanza da provocare uno scandalo. Non ci sono colpevoli diretti, non ci sono carnefici con nomi e cognomi: c'è solo un sistema che accetta tutto questo come se fosse un fenomeno naturale, un destino ineluttabile.

E lo Stato cosa fa? Smantella il Reddito di Cittadinanza, una misura che, pur con i suoi difetti, aveva ridotto il rischio di esclusione sociale per oltre 3 milioni di persone (INPS, 2022). Perché aiutare i poveri è assistenzialismo, mentre elargire miliardi alle banche in crisi è "stabilità del sistema". La narrativa ufficiale vuole che la povertà sia una colpa individuale, un segno di pigrizia, un fallimento personale: chi è povero lo è perché non si è impegnato abbastanza, perché non ha saputo cogliere le opportunità, perché non ha avuto la giusta mentalità.

Nel frattempo, il divario tra ricchi e poveri cresce con la regolarità di un orologio di un banchiere svizzero. Secondo Oxfam, il 10% più ricco della popolazione italiana possiede oltre il 50% della ricchezza totale, mentre il 50% più povero si spartisce le briciole. Ma guai a parlare di redistribuzione: sarebbe "comunismo". Meglio lasciare i poveri a morire lentamente, in silenzio, senza dare troppo nell'occhio.

D'altronde, la povertà è utile. È l'argomento perfetto per ogni campagna elettorale: si promettono misure rivoluzionarie, riforme epocali, guerre senza quartiere contro l'esclusione sociale. Poi, una volta vinte le elezioni, la povertà torna a essere invisibile. Serve anche ai media, che la riscoprono solo nei periodi natalizi, con servizi strappalacrime sui senzatetto e sulle mense della Caritas, per poi dimenticarsene il giorno dopo Santo Stefano. Serve al mercato del lavoro, perché avere una classe di disperati disposti ad accettare qualsiasi condizione pur di sopravvivere permette di mantenere bassi i salari e alti i profitti.

E così il gioco continua, con la complicità generale. Nessuno si assume la responsabilità della miseria dilagante, perché il sistema è costruito in modo da non avere colpevoli. La povertà è una disgrazia, un fenomeno naturale, una sfortuna individuale. Non è mai il prodotto di politiche precise, di decisioni economiche mirate, di scelte deliberate fatte da chi detiene il potere.

E mentre si discute di riforme che non arriveranno mai, mentre si organizzano convegni sulla giustizia sociale pieni di persone che non hanno mai messo piede in una periferia, mentre si celebrano giornate dedicate alla lotta contro la povertà con discorsi altisonanti, la realtà rimane immutata. I poveri continuano a esistere, a lottare nell'ombra, a sopravvivere come possono. E la società continua a guardarli con fastidio, con sufficienza, con la convinzione rassicurante che, in fondo, se sono poveri è perché se lo sono meritato.

E così, la povertà resta il crimine perfetto: senza colpevoli, senza sentenze, senza giustizia.

Disabilità: Le Leggi Bellissime, i Monumenti alla Civiltà e il Nulla Assoluto 

L'Italia è il paese delle grandi dichiarazioni e delle solenni promesse. Qui, i diritti non si conquistano con la lotta, ma con la calligrafia elegante dei decreti legislativi. La civiltà non si misura nei fatti, ma nella qualità retorica dei comunicati stampa. Nessuno può negare che l'Italia abbia prodotto alcune delle leggi più avanzate in materia di disabilità: documenti perfetti, redatti con cura, infarciti di parole che trasudano giustizia, equità e inclusione.

C'è solo un piccolo problema: nessuno le rispetta.

Prendiamo la Legge 104/1992, che sancisce il diritto all'integrazione sociale, all'assistenza, all'abbattimento delle barriere architettoniche. Sulla carta, un paradiso. Nella realtà, un trattato di fantascienza. Un disabile in carrozzina che voglia prendere un treno deve essere un ottimista patologico, perché il viaggio inizia con il primo ostacolo: una stazione senza ascensore. Oppure con un ascensore che esiste, ma è fuori servizio da mesi, con un cartello che recita "Guasto. Ci scusiamo per il disagio" – e che resta lì così a lungo da sembrare un'installazione artistica.

Nel 2022, l'Associazione Nazionale Disabili Italiani ha denunciato che oltre il 60% degli edifici pubblici italiani non è accessibile. Ma non è un problema, perché tanto la legge c'è. Esiste anche la Legge 13/1989, che impone l'abbattimento delle barriere architettoniche nei luoghi pubblici. Un vero capolavoro legislativo. Peccato che le sanzioni per chi non si adegua siano praticamente inesistenti. Così, chi è su una sedia a rotelle continua a trovare marciapiedi senza scivoli, autobus privi di pedane, ingressi con gradini che sembrano progettati apposta per escludere. L'accessibilità, in Italia, è un concetto astratto, una sorta di miraggio giuridico.

Eppure, ogni anno, fioccano convegni e conferenze sulla disabilità, eventi in cui politici e funzionari si congratulano a vicenda per il progresso raggiunto. Il vero evento spettacolare, però, è il 3 dicembre, la Giornata Internazionale delle Persone con Disabilità. In quell'occasione, i social si riempiono di post commoventi, le istituzioni rilasciano dichiarazioni solenni, i giornali pubblicano storie edificanti su disabili che "non si arrendono". Poi, il 4 dicembre, tutto torna come prima: gli ascensori restano rotti, i posti di lavoro riservati ai disabili rimangono vacanti, il welfare continua a essere un'elemosina.

L'Indennità di Accompagnamento: Un'Offerta Speciale per Sopravvivere

Ma veniamo agli aiuti economici. Lo Stato italiano, sempre così attento alla tutela dei più fragili, concede un'indennità di accompagnamento ai disabili gravi: 530 euro al mese (INPS, 2023). Con questa cifra, una persona con disabilità dovrebbe pagarsi assistenza, ausili, trasporti e magari anche concedersi il lusso di mangiare ogni giorno. Nel frattempo, alcuni dirigenti pubblici guadagnano più di 500 euro all'ora per presenziare a riunioni in cui si discute, tra le altre cose, di come ridurre la spesa per il welfare.

Si potrebbe obiettare che l'indennità non è tutto, che esistono sovvenzioni, sconti, misure di supporto. Perfetto. Peccato che ottenere qualsiasi tipo di aiuto richieda un pellegrinaggio burocratico degno della Divina Commedia. Per ricevere un ausilio medico, un disabile deve destreggiarsi tra certificati, richieste, revisioni e commissioni che valutano il suo grado di invalidità con la stessa diffidenza con cui si analizza una truffa fiscale.

Ma non è finita qui. Anche lavorare è un'impresa. La Legge 68/1999 impone alle aziende di assumere una percentuale di lavoratori disabili. Ma il trucco c'è: basta pagare una multa ridicola per evitare l'obbligo. Il risultato? Nel 2023, il tasso di occupazione delle persone con disabilità in Italia era inferiore al 35% (Eurostat, 2023). D'altra parte, perché assumere un disabile quando puoi semplicemente dichiarare di non aver trovato candidati adatti e continuare come se nulla fosse?

Scuola: L'Integrazione Scolastica Come Test di Sopravvivenza

Ma vogliamo parlare del diritto allo studio? Le scuole italiane dovrebbero garantire insegnanti di sostegno per gli studenti con disabilità. Un'idea nobile, certamente. Peccato che, a settembre 2023, mancassero oltre 40.000 insegnanti di sostegno (CISL Scuola, 2023).

Il risultato? Bambini e ragazzi disabili lasciati allo sbando, parcheggiati in classi prive di qualsiasi supporto adeguato, spesso affidati a insegnanti non specializzati che fanno del loro meglio con risorse inesistenti. Le famiglie, esasperate, si arrangiano come possono: chi può permetterselo paga insegnanti privati, chi non può si rassegna all'idea che l'inclusione scolastica sia una chimera.

Nel frattempo, il Ministero dell'Istruzione pubblica comunicati rassicuranti, le scuole organizzano giornate di sensibilizzazione, i presidi si dicono "impegnati a migliorare la situazione". E così, anche l'istruzione inclusiva diventa un monumento alla retorica, un ideale splendido da sbandierare, ma impossibile da realizzare.

La Disabilità Come Fastidio da Nascondere

Il problema di fondo è sempre lo stesso: la società italiana non considera i disabili cittadini, ma ostacoli logistici. Non li odia, certo. Sarebbe scorretto, politicamente inaccettabile, persino volgare. Ma li tratta come un problema da minimizzare, una questione da risolvere con qualche slogan e molta ipocrisia.

E così, le città restano inaccessibili, le scuole inadeguate, il mondo del lavoro chiuso, i trasporti pubblici un incubo. Nel frattempo, ci si congratula per le leggi, per i passi avanti, per la sensibilità acquisita. La civiltà, in Italia, è una questione di forma, non di sostanza.

Ma non c'è da preoccuparsi. Quando un disabile si troverà bloccato davanti a una scala senza ascensore, potrà sempre consolarsi con la lettura della Legge 104/1992. Sarà inutile, ma almeno è scritta bene.

Sanità: Se Sei Povero, Muori in Coda (Ma con Dignità, Si Intende)

La sanità pubblica è il fiore all'occhiello della nostra civiltà, il segno distintivo di uno Stato che si proclama avanzato, democratico, inclusivo. Un sistema sanitario gratuito e accessibile a tutti, in teoria. Nella pratica, è una lotteria con regole semplici: se hai soldi, ti curi subito; se sei povero, aspetti. Se aspetti troppo, muori.

Ma attenzione: non si tratta di un problema, bensì di una selezione naturale mascherata da burocrazia. Non c'è nessun burocrate che decreta ufficialmente chi deve essere curato e chi no. Sarebbe troppo evidente, troppo medievale. No, l'approccio moderno è più raffinato: basta allungare le liste d'attesa, ridurre il personale sanitario, tagliare i fondi agli ospedali pubblici e lasciare che il sistema faccia il resto.

Secondo il Ministero della Salute, nel 2023 il tempo medio di attesa per una visita specialistica nel Servizio Sanitario Nazionale era di quasi sei mesi per alcune prestazioni essenziali. Sei mesi possono sembrare un tempo ragionevole, se si tratta di aspettare l'uscita di un nuovo modello di smartphone. Se invece hai un tumore sospetto e devi fare una biopsia, sei mesi possono fare la differenza tra la vita e la morte.

Ma niente paura! Se vuoi la stessa visita nel privato, la puoi avere in tre giorni. Basta pagare qualche centinaio di euro, e la sanità improvvisamente diventa efficiente, veloce, impeccabile. È quasi magico: gli stessi medici che nel pubblico avrebbero un'agenda piena fino al prossimo anno, nel privato trovano improvvisamente spazio per nuovi pazienti.

L'Illusione della Sanità Universale

Ci piace raccontarci che la sanità pubblica sia un diritto garantito a tutti. È scritto nella Costituzione, all'articolo 32, che la Repubblica tutela la salute come diritto fondamentale dell'individuo e interesse della collettività. Bellissimo. Commovente. Ma la realtà è che la salute è un privilegio, non un diritto. Chi può permettersi di pagare, si cura. Chi non può, spera.

Secondo l'Agenzia Italiana del Farmaco, nel 2022 oltre 2 milioni di italiani hanno rinunciato a cure mediche per motivi economici. Alcuni di loro sono morti. Ma chi se ne importa?

D'altronde, il sistema sanitario è sotto pressione, dicono. Mancano fondi, dicono. Mancano medici, infermieri, strutture. Ma non sembra mai mancare denaro per altre voci di spesa: il bilancio statale riesce sempre a trovare miliardi per il salvataggio delle banche, per il rinnovo degli armamenti, per i bonus aziendali. Per la sanità, invece, si parla immancabilmente di tagli, austerità, spending review.

Pronto Soccorso o Campo di Battaglia?

Chiunque abbia avuto il coraggio di mettere piede in un pronto soccorso italiano negli ultimi anni sa che l'esperienza è più vicina a un girone dantesco che a un centro di cura. Si viene accolti con un numero, non con un nome. L'attesa media per un codice verde può superare le otto ore, sempre che nel frattempo non si finisca per peggiorare e passare direttamente al codice giallo – o peggio, al nero.

I medici e gli infermieri, sottopagati e sovraccarichi di lavoro, fanno miracoli con le poche risorse a disposizione. Ma non possono evitare il disastro: mancano posti letto, le ambulanze sono costrette a fare la fila fuori dagli ospedali, i pazienti vengono parcheggiati nei corridoi come pacchi in attesa di consegna.

Nel 2023, il Sindacato dei Medici Italiani ha denunciato una carenza di oltre 30.000 medici ospedalieri, mentre gli infermieri mancavano per oltre 60.000 posti. Ma la soluzione della politica non è investire nella sanità: è dire ai medici di fare più sacrifici.

Le Liste d'Attesa: Un'Odissea Senza Fine

Le liste d'attesa sono il cuore del problema. Non sono un errore del sistema, sono il sistema. Funzionano così bene nel creare disperazione che molte persone, alla fine, si arrendono e pagano per una visita privata.

Prendiamo un caso concreto. Supponiamo che una persona abbia bisogno di una risonanza magnetica per un dolore sospetto. Telefona all'ospedale pubblico e scopre che il primo appuntamento disponibile è tra dieci mesi. Se invece sceglie di pagare 300 euro, può farla in tre giorni.

A questo punto, chi ha i soldi paga. Chi non li ha, aspetta. E chi non può permettersi di aspettare? Semplice: muore. Ma muore lentamente, con discrezione, senza clamore. Non c'è nessuna selezione eugenetica ufficiale, nessuna legge che decreta chi deve vivere e chi no. Il sistema si autoregola in modo impeccabile.

Il Privato che Salva Tutti (O Quasi)

Ma attenzione: il privato non è il problema, è la soluzione! Così ci dicono. Se la sanità pubblica non funziona, è perché è inefficiente, burocratica, obsoleta. E allora avanti con le cliniche private, con le assicurazioni sanitarie, con la sanità a pagamento.

Negli ultimi dieci anni, sempre più persone si sono rivolte al settore privato per ottenere cure tempestive. Secondo un'indagine di Censis, nel 2023 oltre il 40% degli italiani ha pagato di tasca propria per una visita specialistica, per evitare le attese infinite del pubblico.

Ma c'è un piccolo dettaglio: non tutti possono permetterselo. E così, la sanità pubblica diventa il rifugio dei disperati, mentre chi ha soldi si costruisce un percorso privilegiato. Il diritto alla salute diventa un mercato, dove chi paga di più ottiene di più.

La Salute è un Lusso, Non un Diritto

Ci piace pensare di essere una società civile, in cui nessuno viene lasciato indietro. Ma la verità è che la sanità italiana è un sistema che premia i ricchi e punisce i poveri. Non lo fa apertamente, perché sarebbe brutale. Lo fa con le liste d'attesa, con l'inefficienza programmata, con i tagli ai fondi pubblici.

Possiamo raccontarci che la sanità sia un diritto per tutti, ma la realtà è che è un privilegio per chi può permetterselo. Chi ha i soldi si cura. Chi non li ha, aspetta. E chi aspetta troppo, muore. Ma muore con dignità, senza disturbare, senza protestare, senza fare rumore.

E allora, la domanda è: se lasciamo che milioni di persone vivano (o muoiano) senza cure adeguate, che diritto abbiamo di considerarci migliori delle epoche che condanniamo?

Conclusione: L'Industria della Sofferenza e l'Arte di Mentire Meglio 

C'è una convinzione diffusa secondo cui il mondo, pur con i suoi difetti, stia migliorando. Che l'umanità, nonostante qualche battuta d'arresto, proceda inesorabilmente verso una società più giusta, più equa, più civile (in parte è vero, intendiamoci). È una narrazione rassicurante, utile, necessaria. Ma è una menzogna perfetta.

La verità è molto più semplice e meno edificante: da cento anni a questa parte, nulla è cambiato e nulla cambierà. Non perché sia impossibile migliorare, non perché manchino i mezzi o le conoscenze, ma perché il sistema è costruito per funzionare esattamente così. La sofferenza non è un errore del sistema. È la sua linfa vitale.

Ogni ingiustizia che abbiamo analizzato non è il risultato di una svista, di una disorganizzazione, di una serie di coincidenze sfortunate. È una struttura ben oliata, che genera profitti, che giustifica apparati, che alimenta carriere politiche e arricchisce settori strategici. La povertà, la disabilità, la sanità pubblica in crisi non sono problemi da risolvere. Sono risorse da sfruttare.

La Povertà Come Strumento di Controllo

Non esiste alcuna volontà reale di eliminare la povertà, perché la povertà è utile. È il pretesto perfetto per ogni campagna elettorale: ogni partito promette di combatterla, di ridurre il divario sociale, di garantire maggiori aiuti. Poi, una volta vinte le elezioni, si scopre che le casse sono vuote, che bisogna essere "responsabili", che la priorità è la crescita economica (dei ricchi, ovviamente).

Nel frattempo, i poveri restano al loro posto, funzionali all'economia. Sono la manodopera sottopagata che permette ai profitti di crescere, sono i destinatari di "politiche di emergenza" che giustificano fondi pubblici dirottati in mille rivoli, sono il bersaglio perfetto per distrarre l'opinione pubblica. Perché occuparsi dei veri responsabili della crisi, quando si può dare la colpa ai fannulloni che vivono di sussidi?

Tagliare il welfare è sempre una scelta politica conveniente. Si tolgono soldi ai più deboli con la scusa di combattere gli sprechi, mentre si elargiscono miliardi alle banche, alle grandi aziende, ai gruppi di potere. Chi controlla le risorse non ha alcun interesse a distribuirle in modo equo.

La Disabilità Come Business

Anche la disabilità è un settore redditizio, ma non per chi la vive. Il sistema non è pensato per garantire diritti, bensì per alimentare burocrazie, giustificare fondi, mantenere in vita apparati che non risolvono nulla ma fanno finta di farlo.

Ogni anno si stanziano milioni per l'abbattimento delle barriere architettoniche, per il sostegno scolastico, per l'integrazione lavorativa. Eppure, gli edifici pubblici restano inaccessibili, gli insegnanti di sostegno mancano, le aziende continuano a ignorare le norme sulle assunzioni obbligatorie. Dove finiscono tutti questi soldi? Chi ci guadagna dal fatto che nulla cambi?

Le aziende che producono ausili per disabili, per esempio, vivono in un mercato chiuso, protetto, in cui i prezzi sono gonfiati all'inverosimile. Un semplice montascale può costare migliaia di euro, una carrozzina elettrica può raggiungere cifre da auto di lusso. Ma perché abbassare i prezzi, se tanto i disabili non hanno alternative?

E così si perpetua un sistema in cui la disabilità non è una condizione da supportare, ma un meccanismo da sfruttare economicamente. Un disabile autonomo non genera profitto, un disabile dipendente sì.

La Sanità: Il Più Grande Affare del Secolo

Ma il vero capolavoro è la sanità pubblica trasformata in un'agonia programmata. Il sottofinanziamento del servizio sanitario nazionale non è un errore politico, ma una strategia deliberata. Se il pubblico smette di funzionare, il privato prospera. Se le liste d'attesa diventano insostenibili, chi può permetterselo paga.

Nel frattempo, le industrie farmaceutiche godono di una posizione invidiabile: i governi tagliano i fondi alla sanità pubblica, ma continuano a garantire contratti miliardari alle multinazionali del farmaco. Non importa se i pazienti non possono permettersi le cure: l'importante è che i bilanci delle aziende restino floridi.

E poi ci sono le assicurazioni sanitarie, che attendono pazientemente il collasso definitivo del sistema pubblico per proporsi come l'unica soluzione possibile. La salute è diventata un lusso, il diritto alla cura un prodotto da acquistare.

Propaganda e Menzogne: Il Mondo Cambia Solo Quando Conviene

Tutto questo, ovviamente, è accompagnato dalla solita propaganda politica. Ogni governo si presenta come il salvatore della patria, promettendo di risolvere gli stessi problemi che esistevano dieci, venti, cinquanta anni fa. È una recita perpetua, un ciclo infinito di promesse e disillusioni.

Nel frattempo, i media alimentano la narrazione che serve al potere: raccontano di emergenze improvvise che giustificano nuovi tagli, di "privatizzazioni necessarie", di riforme inevitabili. Ci si indigna per qualche settimana, poi arriva un'altra emergenza a distrarre l'opinione pubblica. E alla fine, tutto resta com'era.

Realismo, Non Pessimismo

Non siamo pessimisti, siamo realisti. Non siamo cinici, siamo semplicemente abbastanza lucidi da vedere il gioco per quello che è. Il mondo non sta migliorando. Sta solo affinando le sue tecniche di sfruttamento e oppressione.

Un tempo si sterminavano i deboli con la violenza. Oggi li si lascia morire lentamente, con eleganza, con burocrazia, con regolamenti che sembrano fatti per aiutarli ma che in realtà servono solo a creare nuovi ostacoli. L'eliminazione diretta è stata sostituita dall'esclusione sistematica.

E così il mondo prosegue, identico a se stesso, mentre ci raccontiamo che tutto stia cambiando. Ma il cambiamento è solo una questione di estetica. Il metodo si evolve, la sostanza resta invariata.

Forse, l'unico vero progresso è che oggi riusciamo a mentire meglio. E la menzogna più grande è quella che raccontiamo a noi stessi: che qualcosa, prima o poi, cambierà davvero.

Maurizio Potenza


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