
Dal Baratro alla Gloria - Prologo
L'Italia del 2006: Tra Crisi e Speranza
L'Italia del 2006 è un Paese in bilico, come un funambolo che avanza su una corda tesa tra passato e futuro, con il rischio costante di precipitare. Non è più quella delle illusioni, ma non è ancora quella delle disillusioni definitive. È un'Italia che ha smesso di credere ciecamente nel progresso, ma non ha ancora perso del tutto la speranza. Si vive in un limbo strano, fatto di nostalgia per i tempi d'oro e incertezze che si allungano come ombre sul futuro. La gente tira avanti con una rassegnazione quasi poetica, come chi sa che le cose non vanno bene, ma che, in fondo, potrebbero sempre andare peggio.
Le città sono vive, ma stanche. Milano corre, corre sempre, ma nessuno sa davvero dove stia andando. Il traffico è una giungla, una sinfonia di clacson e imprecazioni che accompagna come un sottofondo musicale ogni giornata. I tram avanzano scricchiolando, i manager parlano al telefono con l'auricolare come se fossero agenti segreti, i bar servono caffè bollenti a uomini che leggono il giornale con espressioni perennemente scettiche. In centro, le vetrine delle boutique scintillano di lusso, eppure nelle periferie c'è chi fatica ad arrivare alla fine del mese. Milano è una città che vuole essere moderna, europea, ma sotto la superficie si porta dietro la stessa malinconia che si respira in tutta Italia.
Roma, invece, ha un altro ritmo. Non corre, Roma cammina. E spesso si ferma. Si ferma per un caffè, per una chiacchiera, per una discussione sul calcio che può durare ore. I motorini sfrecciano nei vicoli, i sanpietrini traballano sotto il peso del tempo, i turisti si perdono tra monumenti che forse nemmeno gli stessi romani guardano più. Nei bar, il caffè è un rito sacro, il giornale è quasi un'arma da esibire per dimostrare che si è informati su tutto, anche quando non è vero. Gli anziani siedono sulle panchine a guardare la città scorrere, con l'aria di chi ne ha viste troppe per sorprendersi ancora. A Roma nessuno si sorprende mai. Nemmeno quando tutto crolla.
E poi c'è il Sud, il cuore pulsante di un'Italia che non si arrende mai. Qui il sole è più forte, il tempo è più lento, la vita è più rumorosa. Le strade sono polverose, le piazze assolate, i panni stesi al vento raccontano storie di famiglie e tradizioni che resistono al passare delle generazioni. I ragazzini giocano a pallone fino a quando le madri non li richiamano con un urlo che si propaga da un balcone all'altro, come un'eco familiare e immutabile.
L'Italia è sempre stata un Paese che si stringe attorno alle sue passioni, e il calcio è sempre stato la più grande di tutte. Più della politica, più della religione, più di qualsiasi altra cosa. Quando gioca la Nazionale, il Paese si ferma. O almeno, si fermava.
Perché questa volta è diverso. Questa volta è successo qualcosa che ha spezzato l'incantesimo.

Calciopoli: Il Tradimento del Pallone
Il 2006 è l'anno dello scandalo. Calciopoli. Una parola che da sola basta a far tremare il calcio italiano, a far ribollire i bar, ad accendere discussioni infinite tra chi si sente tradito e chi, in fondo, già sapeva. Un terremoto che scuote il cuore del pallone, un colpo di mannaia che spezza l'ultimo filo di ingenuità rimasto nei tifosi.
Tutto comincia con un'indagine della Procura di Napoli. Un'indagine che, nelle intenzioni iniziali, non aveva nulla a che fare con il calcio. Si trattava di intercettazioni telefoniche su alcune attività sospette legate al mondo delle scommesse, ma ascoltando le conversazioni, gli investigatori si imbattono in qualcosa di molto più grosso: un sistema di potere occulto che controllava il campionato di Serie A.
A maggio, con il campionato appena concluso, il quotidiano La Repubblica spara in prima pagina: "Il calcio italiano nella bufera: intercettazioni svelano un sistema di favori e pressioni". Il giorno dopo, La Gazzetta dello Sport è ancora più diretta: "Calcio malato: arbitri scelti a tavolino, un campionato falsato?"
Le intercettazioni sono devastanti. Luciano Moggi, direttore generale della Juventus, parla con i designatori arbitrali come un capo che dà ordini ai suoi sottoposti. In una telefonata con Pierluigi Pairetto, uno dei responsabili della selezione degli arbitri, Moggi chiede: "Chi mi mandi domenica?" e poi, con tono più deciso: "No, questo no. Mandami Collina o Rosetti."
In un'altra intercettazione, Moggi chiama un arbitro prima di una partita e gli dice, con ironico affetto: "Mi raccomando, eh. Non facciamo scherzi."
Ma la Juventus non è sola. Anche il Milan di Adriano Galliani, la Fiorentina dei Della Valle, la Lazio di Claudio Lotito e la Reggina di Lillo Foti vengono tirate dentro. Tutti parlano con tutti, tutti sembrano sapere. È un sistema che non è nato ieri, è qualcosa che esiste da tempo, ma che ora è stato strappato dal buio e messo sotto la luce crudele dei riflettori.
I tifosi sono in stato di shock. Gli juventini si dividono tra chi difende la società a spada tratta e chi, con un nodo alla gola, si chiede se gli scudetti degli ultimi anni abbiano davvero lo stesso valore. Gli interisti, storicamente rivali della Juve, si sentono vendicati e gridano allo scandalo, ma nel frattempo qualcuno insinua: "E voi? Siete sicuri di essere puliti?"
Nei bar, nelle piazze, nelle edicole, si respira l'aria di una rivoluzione tradita. "Tanto era tutto scritto." "Ci hanno preso in giro per anni." "E io che mi arrabbiavo per i rigori non dati… Ma che senso ha tifare?"
Ma qualcuno, tra i più anziani, scuote la testa con un sorriso amaro. "Questa storia l'abbiamo già vista." E infatti non è la prima volta. Nel 1980, due anni prima dello storico trionfo dell'Italia al Mondiale di Spagna, il calcio italiano era stato travolto dallo scandalo del "Totonero". Anche allora, intercettazioni, scommesse clandestine, partite vendute. Anche allora, la Nazionale partiva per un Mondiale con l'ombra della vergogna sulle spalle. Eppure, quell'Italia, guidata da Bearzot e trascinata dai gol di Paolo Rossi, aveva ribaltato il destino, trasformando il veleno in gloria.
A giugno, la giustizia sportiva è già al lavoro. La Juventus rischia la retrocessione in Serie B, il Milan una forte penalizzazione, la Fiorentina e la Lazio potrebbero subire sanzioni pesanti. Il calcio italiano, quello che si vantava di avere il campionato più bello del mondo, è ora un castello di carte che sta crollando sotto il peso delle sue stesse bugie.
E proprio in questo clima, l'Italia parte per il Mondiale. Con un allenatore, Marcello Lippi, che fino a poco prima era stato accusato di essere troppo vicino a Moggi. Con Buffon, Cannavaro, Zambrotta e tanti altri giocatori juventini che non sanno se, al ritorno, troveranno ancora la loro squadra in Serie A. Con un popolo che non sa più se tifare o vergognarsi.
L'entusiasmo è ai minimi storici. Il Mondiale sta per iniziare, ma nessuno ci crede davvero.
Ma nel silenzio dello spogliatoio, lontano dai microfoni e dalle telecamere, c'è un gruppo di uomini che non ha intenzione di accettare questo destino.
Marcello Lippi: Il Generale con il Sigaro
Marcello Lippi non sorride mai. O meglio, lo fa, ma solo quando ha una sigaretta tra le dita e nessuno lo sta guardando. È un uomo fatto di certezze, di silenzi pesanti, di sguardi che dicono più di mille parole. Non ha bisogno di alzare la voce, perché la sua presenza basta a farsi rispettare. È uno di quegli allenatori vecchio stampo, quelli che non cercano il consenso, che non si preoccupano di piacere alla stampa o ai tifosi. A lui interessa solo vincere.
Quando la Federazione lo sceglie come commissario tecnico della Nazionale nel 2004, l'Italia è ancora sotto shock per l'Europeo fallimentare di Trapattoni. Un torneo chiuso nella fase a gironi, con l'amarezza di un'eliminazione decisa più dalla matematica che dal campo. Serviva una svolta, un uomo che sapesse ricostruire, che avesse il carisma per trasformare un gruppo di giocatori in una squadra vera. E Lippi era l'uomo giusto.
Nato a Viareggio, cresciuto tra il rumore del mare e il vento che soffia forte sulla costa toscana, Lippi ha imparato presto una lezione fondamentale: la tempesta non si evita, si attraversa. Da giocatore è stato un difensore solido, senza fronzoli, uno di quelli che non facevano sognare le folle ma che erano indispensabili per tenere in piedi la squadra. Da allenatore, invece, ha costruito la sua carriera su un'idea chiara: il talento conta, ma senza disciplina non serve a niente.
Il suo nome è legato alla Juventus, con cui ha vinto tutto. Cinque scudetti, una Champions League, una Coppa Intercontinentale, una squadra che giocava con la ferocia di un esercito in battaglia. Lippi era il generale, il comandante che non accettava compromessi. O si seguiva la sua strada, o si era fuori.
Quando arriva in Nazionale, porta con sé questa mentalità. Vuole una squadra che non sia solo un insieme di stelle, ma un gruppo solido, compatto, disposto a morire sul campo l'uno per l'altro. E per costruire questa squadra, è pronto a fare scelte difficili.
Il giorno in cui annuncia i convocati per il Mondiale, l'Italia si spacca. Non c'è Christian Vieri, l'attaccante che per anni è stato il volto dell'attacco azzurro, il bomber che segnava a raffica. Non c'è Antonio Cassano, il talento più puro del calcio italiano, ma anche il più ingestibile. Lippi non ammette distrazioni, non vuole elementi che possano rompere l'armonia dello spogliatoio.
Ci sono invece uomini di fatica, giocatori che forse non faranno sognare con i loro colpi di genio, ma che non tradiranno mai. Ci sono Gattuso, Perrotta, Camoranesi, giocatori che corrono, che lottano, che non si risparmiano mai. C'è un gruppo di uomini pronti a seguire il loro allenatore fino in fondo, senza farsi domande.
Lippi sa che nessuno crede in questa squadra. Sa che in Italia l'atmosfera è cupa, che lo scandalo Calciopoli ha tolto ogni entusiasmo, che i tifosi si aspettano un fallimento. Ma non gli interessa. Sa anche un'altra cosa: la battaglia non è ancora cominciata.
E quando la battaglia inizierà, la sua Italia sarà pronta.

L'Ultima Armata: Uomini Prima che Campioni
Gigi Buffon è il guardiano della porta. Non è solo un portiere, è un monolite, una barriera che separa la speranza degli avversari dalla loro frustrazione. Quando allarga le braccia, sembra coprire l'intera porta, come se il destino avesse deciso che superarlo fosse un'impresa riservata a pochi eletti. Ha mani grandi come pale, riflessi da felino, una concentrazione d'acciaio. Ma soprattutto ha qualcosa che lo rende diverso da tutti gli altri: la certezza assoluta di essere il migliore. Non è arroganza, è consapevolezza. Gli attaccanti lo sanno: superarlo è quasi impossibile.
Accanto a lui, a proteggerlo, c'è una difesa che sembra scolpita nella pietra. Fabio Cannavaro è il comandante. Non è il difensore più alto, non è il più muscoloso, ma è il più feroce. Ogni contrasto è un duello, ogni pallone un trofeo da conquistare con il massimo della determinazione. Il suo petto è sempre in fuori, la testa sempre alta, come se il peso della squadra intera poggiasse sulle sue spalle senza scalfirlo. Non si ferma mai, non si tira indietro, non concede nulla. Se un attaccante pensa di poterlo superare con la tecnica, si sbaglia. Se pensa di poterlo battere con la forza fisica, si sbaglia ancora di più.
Al suo fianco c'è Marco Materazzi. Due metri di ossa, muscoli e un'inclinazione naturale al combattimento. Non è elegante, non è raffinato, ma è efficace. Se un attaccante lo affronta, scopre presto che il suo compito non sarà facile. Materazzi è un difensore ruvido, uno che non si fa problemi a usare il fisico, le gambe, la voce, qualsiasi arma necessaria per fermare il suo avversario. Non ha paura di niente e di nessuno. Eppure, oltre alla durezza, ha un altro talento: il colpo di testa. In area avversaria, sui calci d'angolo, diventa una minaccia.
Ma la difesa non è solo loro. Ci sono gli esterni, due uomini instancabili.
Gianluca Zambrotta è il cavallo da corsa. Corre su e giù per la fascia come se non avesse mai bisogno di riposare. Un terzino capace di difendere come un centrale e attaccare come un'ala. Ha polmoni infiniti, piedi educati e una determinazione feroce. Nessuno lo ferma, nessuno lo stanca.
Dall'altra parte c'è Fabio Grosso. Meno celebrato, meno atteso, ma con una qualità che pochi gli riconoscono: è sempre nel posto giusto al momento giusto. Un terzino che sa farsi trovare, che sa inserirsi, che sa aspettare il momento giusto per colpire. È uno di quelli che lavora nell'ombra, ma che non si tira mai indietro.
A centrocampo c'è Andrea Pirlo. Non corre, cammina. Non si affanna, osserva. È il giocatore che sembra sempre avere un secondo in più degli altri, come se il tempo per lui scorresse più lentamente. Ha i piedi di un artista e la calma di un monaco. Quando il pallone arriva a lui, tutto il caos del calcio si ferma. Gli altri corrono, lui pensa. E quando decide di illuminare il gioco, non c'è niente che l'avversario possa fare.
Accanto a lui, Gennaro Gattuso, il mastino. Lui non gioca a calcio, lui combatte. Corre, urla, morde. Se Pirlo è il pittore, lui è il muratore che costruisce la tela su cui dipingere. Non ha il talento di Pirlo, né l'eleganza di Totti, né il fiuto del gol di Toni. Ma ha qualcosa che gli altri non hanno: la furia. È l'anima della squadra, il cuore pulsante che non si ferma mai. Se c'è un contrasto, lui ci va. Se c'è una palla sporca, lui la recupera. Se c'è un avversario da intimidire, lui lo guarda e quello capisce.
Ma il centrocampo non è solo loro. C'è Simone Perrotta, il tuttofare. Uno di quei giocatori che non brillano mai sotto i riflettori ma che ogni squadra vincente ha bisogno di avere. Corre, si inserisce, copre, lavora nell'ombra. E poi c'è Mauro Camoranesi, l'italo-argentino con i capelli lunghi e lo spirito da guerriero. Uno che non si risparmia mai, che lotta, che sgomita. Uno che sa che vincere un Mondiale è una possibilità che capita una sola volta nella vita.
E poi ci sono le due anime dell'attacco: Francesco Totti e Alessandro Del Piero.
Totti arriva al Mondiale dopo un infortunio che avrebbe messo fine alla carriera di chiunque. Ma lui non è chiunque. Ha passato mesi a soffrire, a stringere i denti, a lavorare in silenzio. Sa che questa potrebbe essere la sua ultima occasione per lasciare il segno con la maglia azzurra. Non è più il ragazzo spavaldo che ride davanti alle telecamere con l'accento romano marcato. Ora è un uomo che ha conosciuto il dolore e che sa che questa è la sua battaglia finale.
Del Piero, invece, è qui per riscattarsi. Ha sbagliato troppo in passato, ha deluso troppe volte nei momenti decisivi. Ha vissuto all'ombra di Totti, nonostante sia un simbolo della Juventus e uno dei giocatori più amati d'Italia. È elegante, raffinato, ha un destro che sembra dipingere traiettorie impossibili. Ma gli manca qualcosa: un grande Mondiale. Questa volta è diverso. Questa volta è pronto.
E infine c'è Luca Toni. Un bomber di provincia arrivato qui con la fame di chi non ha mai avuto niente di regalato. Alto, con le spalle larghe, i capelli spettinati e quell'aria da ragazzo che non si è mai montato la testa. Fa gol come se fosse la cosa più naturale del mondo. Non è un fenomeno da copertina, non è un giocatore che fa innamorare con i dribbling. Ma in area di rigore è un killer.
Ma non sono soli. Ci sono Alberto Gilardino, Vincenzo Iaquinta, Filippo Inzaghi. Tre attaccanti diversi, tre modi di vivere il calcio. Gilardino è il talento in ascesa, Iaquinta è la potenza, Inzaghi è il predatore d'area, quello che vive per il gol e che, anche se gioca poco, sa che il suo momento arriverà.
Questa è l'Italia che va in Germania. Una squadra di uomini prima che di campioni. Una squadra che nessuno considera favorita, che parte con lo scandalo sulle spalle, con il sospetto, con la rabbia di un Paese intero. Ma dentro quello spogliatoio, loro sanno qualcosa che gli altri ancora ignorano: sono pronti.

L'Inizio di un Viaggio
Nessuno crede in loro. Nessuno pensa che possano vincere. Non questa Italia, non con questo clima, non con tutto quello che sta succedendo.
I giornali sono spietati. La Gazzetta dello Sport titola: "Un'Italia senza sogni". Il Corriere della Sera è ancora più duro: "Azzurri in partenza, ma a casa nessuno ci crede". Tuttosport, da sempre vicino alla Juventus, è più cauto: "Lippi e i suoi ragazzi partono tra speranze e polemiche", ma il tono è più di circostanza che di vera fiducia. La stampa internazionale non è da meno. In Inghilterra, il Times scrive: "L'Italia è un gigante ferito", mentre in Germania il Bild ironizza: "Calcio e scandali: gli italiani sanno ancora giocare?"
L'aria è pesante, densa di scetticismo. L'Italia parte senza entusiasmo, senza aspettative, senza il calore della sua gente. I tifosi sono divisi tra chi ha ancora voglia di credere in questi giocatori e chi è troppo disgustato da Calciopoli per tifare con il cuore. Nei bar, nelle piazze, nelle case, si respira un senso di distacco. "Andremo là a fare figuracce", dice qualcuno. "Siamo già eliminati in partenza", borbotta un altro.
Ma dentro lo spogliatoio, dentro quel gruppo di uomini, si respira un'aria diversa.
I giocatori guardano le loro valigie pronte e sanno che stanno per partire per un viaggio che potrebbe cambiarli per sempre. Buffon sistema i suoi guanti con la meticolosità di un artigiano prima di un'opera importante. Cannavaro si allaccia le scarpe con la stessa attenzione con cui un soldato prepara la sua armatura. Gattuso cammina avanti e indietro, inquieto, con la mascella serrata, come un leone in gabbia pronto a essere liberato. Pirlo è seduto, silenzioso, con lo sguardo perso nel vuoto, come se già vedesse quello che gli altri ancora non immaginano.
E poi c'è Lippi. Lui non parla molto, non ha bisogno di fare discorsi lunghi. Li guarda uno per uno, li osserva mentre si preparano. Sa che qualcosa sta crescendo dentro di loro. Sa che la rabbia, il senso di ingiustizia, la voglia di dimostrare al mondo intero che si sbaglia stanno alimentando qualcosa di potente.
L'aeroporto di Malpensa è affollato di giornalisti, microfoni, telecamere. Le domande sono sempre le stesse. "Mister, come vede la squadra?" "Capitano, sentite la pressione?" "Buffon, pensate a Calciopoli?" I giocatori rispondono con frasi di circostanza, ma dentro di loro sanno la verità.
Non stanno partendo solo per un torneo. Stanno partendo per una guerra.
L'aereo è sulla pista. La destinazione è la Germania.
Egidio Ballerini