Comunismo: Filosofia di giustizia o ideologia da demonizzare?

Da quando l'essere umano ha capito che vivere in gruppo era meglio che affrontare da solo i predatori – e, più tardi, i vicini con intenti espansionistici – si è posto il problema di come organizzare la società. Il comunismo nasce proprio come risposta a questa domanda, e non, come qualche intellettuale da talk show vorrebbe far credere, come un capriccio di qualche barbuto ottocentesco con la fissa per la dialettica. No, il comunismo è molto più antico della sua formulazione moderna: è il tentativo di immaginare un mondo in cui il potere e la ricchezza non siano appannaggio esclusivo di chi ha avuto la fortuna di nascere nel posto giusto al momento giusto o di chi ha affinato l'arte di passare sopra agli altri con la grazia di un carro armato in marcia.

Eppure, se oggi si osa pronunciare la parola "comunismo" in una conversazione pubblica, si rischia di essere additati come nostalgici di gulag e piani quinquennali fallimentari. Il motivo? Una lettura distorta della storia, in cui il comunismo viene ridotto a una sequenza di dittature sanguinarie, ignorando completamente la sua essenza filosofica e socio-economica. Non è un caso che il Parlamento Europeo, con una disinvoltura che farebbe impallidire anche i più spregiudicati revisionisti storici, abbia approvato il 19 settembre 2019 una risoluzione in cui equipara comunismo, nazismo e fascismo. La logica di questa operazione è tanto sottile quanto un elefante in una cristalleria: se si parte dal presupposto che ogni sistema che abbia generato un regime autoritario sia uguale agli altri, allora anche la democrazia ateniese, che si reggeva sulla schiavitù, dovrebbe essere messa sullo stesso piano del Terzo Reich.

Ma il problema è più profondo. Fascismo e nazismo sono ideologie che hanno nella loro stessa struttura il culto della gerarchia, della violenza e della sopraffazione. Il fascismo, come dichiarava apertamente Mussolini nella Dottrina del Fascismo (1932), è la glorificazione della disuguaglianza, il rifiuto della democrazia e la celebrazione della forza sopra ogni altra cosa. Il nazismo, poi, ha portato questa logica alle sue estreme conseguenze, trasformando la discriminazione razziale in un programma politico che ha condotto ai campi di sterminio. Il comunismo, al contrario, nasce come una filosofia che punta all'uguaglianza e alla liberazione degli oppressi. Certo, ha avuto le sue degenerazioni – e ci arriveremo – ma confondere l'idea con le sue distorsioni è come dire che la medicina è malvagia perché alcuni ci hanno fatto esperimenti su cavie umane.

L'obiettivo di questo articolo è proprio quello di restituire al comunismo la sua complessità e la sua dignità intellettuale. Esploreremo le sue origini, analizzeremo le sue deviazioni storiche e mostreremo come, nonostante tutto, il suo lascito continui a permeare le società moderne. Non per riabilitare un'ideologia, ma per rimettere la storia al suo posto e, perché no, per sfatare qualche mito che fa comodo a chi ha interesse a mantenere lo status quo. Dopotutto, come scriveva George Orwell in 1984, "chi controlla il passato controlla il futuro; chi controlla il presente controlla il passato." E pare proprio che qualcuno, in Europa, abbia deciso di giocare questa partita con le carte truccate.

Comunismo: un ideale di giustizia sociale e collettività

Dimenticate per un attimo le immagini stereotipate di falci e martelli, rivoluzionari barbuti e scenari di grigi palazzoni sovietici. Il comunismo, prima di essere un'etichetta politica manipolata e distorta dai regimi del XX secolo, è un'idea antica quanto la civiltà stessa. Le sue radici affondano nella notte dei tempi, quando l'umanità, ancora lontana dall'invenzione della proprietà privata, viveva in comunità in cui la sopravvivenza dipendeva dalla condivisione dei beni. È ironico, dunque, che oggi il comunismo venga visto come un'utopia irrealizzabile, quando in realtà esso rappresenta il ritorno a un modello sociale che ha garantito la sopravvivenza della specie per millenni.

Già Platone, nella Repubblica (380 a.C.), immaginava una società in cui i beni fossero condivisi per eliminare le rivalità e garantire la giustizia. Certo, il buon vecchio Platone aveva in mente una società rigidamente organizzata, con i filosofi a comandare e i guerrieri a eseguire ordini senza discutere, ma l'idea di fondo era chiara: la proprietà privata genera conflitto, e il superamento di essa potrebbe portare a una società più armoniosa. Anche nel cristianesimo primitivo troviamo un'eco di questo principio: gli Atti degli Apostoli descrivono le prime comunità cristiane come gruppi in cui tutto era messo in comune e nessuno possedeva più degli altri. Insomma, prima di essere demonizzato come il male assoluto, il principio della condivisione era considerato, in molte civiltà, un valore morale e sociale.

Ma è nel XIX secolo che il comunismo assume la sua forma teorica moderna, grazie a Karl Marx e Friedrich Engels. Con il Manifesto del Partito Comunista (1848), i due filosofi tedeschi non si limitano a proporre un'alternativa al capitalismo, ma ne smontano i meccanismi con la precisione di un chirurgo che espone le viscere di un organismo malato. La loro tesi è semplice e rivoluzionaria: la storia dell'umanità è una storia di lotta tra classi, e il capitalismo non è altro che l'ennesima fase di questa dialettica. I padroni sfruttano i lavoratori, accumulano ricchezze sulle loro spalle e, quando il sistema diventa insostenibile, vengono travolti dalla ribellione di coloro che hanno oppresso. Un ciclo senza fine, che potrebbe trovare il suo epilogo solo con l'abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione e l'instaurazione di un sistema basato sulla giustizia sociale.

Nel Capitale (1867), Marx approfondisce questa analisi, mostrando come il capitalismo alieni il lavoratore dal frutto del proprio lavoro. Il contadino medievale, per quanto vincolato a un signore feudale, almeno vedeva il raccolto dei suoi campi. L'operaio industriale, invece, si limita a eseguire gesti ripetitivi su un macchinario, senza mai poter rivendicare la proprietà di ciò che produce. Questo sistema, secondo Marx, è destinato a implodere, perché le sue contraddizioni interne lo rendono insostenibile sul lungo periodo. "La libertà consiste nel trasformare lo Stato da organo sovrano a organo subordinato alla società" scrive Marx, immaginando un futuro in cui il potere non sia più uno strumento di dominio, ma un mezzo per garantire il benessere collettivo.

Friedrich Engels, nel saggio L'origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato (1884), sottolinea che il primo grande spartiacque nella storia dell'umanità è stato proprio l'introduzione della proprietà privata. Secondo Engels, il comunismo non è una dittatura centralizzata, come lo dipingono i suoi detrattori, ma un modello in cui le risorse sono gestite collettivamente per garantire il benessere di tutti. È un sistema che elimina il paradosso per cui pochi individui possiedono ricchezze immense mentre milioni di persone muoiono di fame. Come osserva lo storico Eric Hobsbawm, "il capitalismo ha sempre avuto bisogno del comunismo come suo contrappeso, perché senza di esso avrebbe divorato se stesso molto tempo fa."

Eppure, nonostante la profondità di queste analisi, il comunismo è stato spesso distorto e ridotto a una semplice giustificazione per regimi autoritari. Stalin, Mao, Pol Pot hanno usato il linguaggio del comunismo per giustificare le loro dittature, proprio come l'Inquisizione usò il cristianesimo per bruciare gli eretici. Ma attribuire a Marx i crimini di Stalin è come incolpare Darwin per i genocidi perpetrati nel nome del darwinismo sociale. Come osserva il professor Alessandro Barbero, "il comunismo è stato tradito dai suoi stessi interpreti, che lo hanno trasformato in un'ideologia di controllo invece che di liberazione."

Il vero comunismo, quello teorizzato da Marx e Engels, non è mai stato realizzato. È rimasto un'idea, un orizzonte, un punto di riferimento per chiunque abbia cercato di costruire una società più giusta. E, ironia della sorte, è proprio grazie a questa idea che molte delle conquiste sociali moderne sono state ottenute. Ma di questo parleremo più avanti. Per ora, basti dire che il comunismo è molto più di uno slogan o di un insulto da lanciare contro gli avversari politici: è una filosofia che, piaccia o meno, continua a influenzare il mondo in cui viviamo.

Fascismo, nazismo e comunismo: un'equiparazione storicamente infondata

C'è qualcosa di straordinariamente audace nel tentativo di mettere comunismo, fascismo e nazismo nello stesso calderone, come se fossero tre varianti dello stesso veleno totalitario. È un po' come dire che un medico e un avvelenatore sono fondamentalmente la stessa cosa perché entrambi maneggiano sostanze chimiche. Eppure, la risoluzione del Parlamento Europeo del 19 settembre 2019 ha fatto esattamente questo: ha decretato che comunismo e nazifascismo sono due facce della stessa medaglia, ignorando con una certa disinvoltura le profonde differenze filosofiche, storiche e politiche che li separano.

Per comprendere l'assurdità di questa equiparazione, basta tornare alle fonti. Benito Mussolini, nel suo scritto Dottrina del Fascismo (1932), dichiarava senza mezzi termini: "Il fascismo nega che la maggioranza, per il semplice fatto di essere maggioranza, possa dirigere la società." In altre parole, il fascismo è un'ideologia che rigetta la democrazia, glorifica la disuguaglianza e considera il dominio di un'élite come l'unica forma di governo possibile. Non è un caso che Mussolini abbia costruito un sistema basato sul culto della personalità, sulla repressione violenta degli oppositori e sull'esaltazione della guerra come strumento di affermazione nazionale.

Il nazismo, dal canto suo, portò questa logica alle sue conseguenze più estreme. Adolf Hitler, nel Mein Kampf (1925), affermava che "la natura non desidera l'uguaglianza; essa divide i forti dai deboli." Questa frase racchiude l'essenza del pensiero nazista: una visione del mondo in cui la gerarchia è un dato biologico, e il diritto alla vita è riservato solo a chi rientra nei canoni della "razza superiore". Il genocidio degli ebrei, dei rom, degli omosessuali e dei disabili non fu un incidente di percorso, ma il cuore stesso del progetto nazista. Il Terzo Reich non si limitò a governare con pugno di ferro: costruì un'intera macchina di sterminio su scala industriale, convinto che l'eliminazione fisica di milioni di persone fosse un passaggio necessario per il progresso della civiltà ariana.

Ora, confrontiamo tutto questo con il comunismo. Marx ed Engels non parlano mai di superiorità razziale, non teorizzano la necessità di sterminare intere categorie di esseri umani, né costruiscono un sistema fondato sulla disuguaglianza come principio. Anzi, il comunismo nasce proprio come un tentativo di eliminare le barriere sociali e garantire un'esistenza dignitosa a tutti. Certo, la storia ha visto dittature che si sono dichiarate comuniste, ma queste non sono la realizzazione del comunismo, bensì il suo tradimento. Come scrive Antonio Gramsci, "Il comunismo non è una ricetta, ma un processo; non è un modello, ma una lotta."

L'equiparazione tra nazismo e comunismo è dunque non solo storicamente infondata, ma anche pericolosa. Perché se si accetta l'idea che qualsiasi sistema che abbia prodotto un regime autoritario sia da condannare allo stesso modo, allora dovremmo condannare anche la democrazia ateniese – che si reggeva sulla schiavitù – o la monarchia costituzionale britannica, che per secoli ha costruito il suo impero sulla colonizzazione e la violenza. Ma nessuno si sognerebbe di dire che la democrazia e il colonialismo sono la stessa cosa.

Questa mistificazione ha un obiettivo chiaro: rimuovere il comunismo dalla storia come possibile alternativa al capitalismo. Perché non è il terrore dei gulag che spaventa i sostenitori dello status quo, ma l'idea che possa esistere un sistema in cui la ricchezza non sia concentrata nelle mani di pochi. Fascismo e nazismo sono stati sconfitti, il comunismo invece continua a essere un'idea che resiste, che ritorna, che si insinua nei movimenti sociali e nelle lotte per i diritti. E forse è proprio questo che lo rende così pericoloso per i suoi detrattori.

Il comunismo tradito: Stalin, Mao e Pol Pot

Se il comunismo fosse una persona, probabilmente avrebbe intentato causa per diffamazione contro alcuni dei suoi presunti rappresentanti. E avrebbe vinto. Perché, se è vero che l'ideale comunista nasce con l'intenzione di emancipare i lavoratori e distribuire equamente le risorse, è altrettanto vero che, nel corso del XX secolo, è stato sequestrato, stravolto e trasformato in un'arma di oppressione proprio da coloro che affermavano di voler liberare le masse. Il risultato? Regimi che avevano più in comune con le dittature fasciste che con i principi di Marx ed Engels.

Stalin: il comunismo trasformato in culto della personalità

Dopo la morte di Lenin nel 1924, l'Unione Sovietica si trovò di fronte a un bivio: proseguire sulla strada del socialismo democratico o trasformarsi in una macchina repressiva guidata da un leader assoluto? La risposta arrivò con la rapidità di un colpo di pistola alla nuca: Josef Stalin eliminò i suoi rivali politici e instaurò un regime che, più che comunista, era una monarchia assoluta con un'estetica operaia. Le purghe degli anni '30, i processi farsa e la deportazione di milioni di persone nei Gulag non furono un triste effetto collaterale di una rivoluzione necessaria, ma il cuore stesso del sistema stalinista.

La paranoia di Stalin non conosceva limiti: chiunque osasse avanzare una critica, anche minima, veniva spedito nei campi di lavoro in Siberia, dove la neve e la fame facevano il resto. Il Partito Comunista divenne un apparato di controllo ossessivo, dove la fedeltà al leader contava più delle idee. Come sottolinea lo storico Robert Service, "Stalin usò il linguaggio del comunismo per giustificare un sistema che era, in realtà, un culto della personalità." Il risultato fu un'Unione Sovietica in cui il socialismo esisteva solo sulla carta, mentre nella pratica si era instaurata una dittatura burocratica che opprimeva gli stessi proletari che avrebbe dovuto emancipare.

Mao Zedong: il comunismo trasformato in follia collettiva

Se Stalin aveva trasformato il comunismo in un apparato repressivo, Mao Zedong fece ancora di peggio: lo trasformò in un esperimento sociale su scala nazionale, con conseguenze catastrofiche. Il "Grande Balzo in Avanti" (1958-1962) fu un tentativo di industrializzazione forzata che si concluse con una carestia devastante, in cui morirono tra i 30 e i 45 milioni di persone. Intere comunità furono costrette a produrre acciaio nei cortili delle loro case, abbandonando le coltivazioni e causando una crisi alimentare senza precedenti.

E quando si pensava che il peggio fosse passato, arrivò la "Rivoluzione Culturale" (1966-1976), un decennio di fanatismo ideologico in cui milioni di studenti furono trasformati in milizie paramilitari – le famigerate Guardie Rosse – pronte a perseguitare chiunque fosse sospettato di "revisionismo". Intellettuali, artisti, professori e persino membri del Partito Comunista furono umiliati pubblicamente, torturati o uccisi in nome della purezza ideologica. Mao, con la sua capacità di manipolare le masse, riuscì a trasformare una nazione intera in un teatro dell'assurdo, dove la delazione divenne un dovere patriottico e la paura un pilastro del sistema.

Eppure, nonostante il disastro umano e sociale, Mao rimane ancora oggi una figura ambigua: in Cina è venerato come un eroe nazionale, e la sua immagine campeggia nelle piazze come se la memoria collettiva avesse deciso di ignorare i milioni di morti causati dalle sue politiche. In realtà, il suo regime non aveva nulla a che fare con il comunismo immaginato da Marx: era un sistema autoritario che usava la retorica della rivoluzione per giustificare un potere assoluto.

Pol Pot: il comunismo trasformato in genocidio

Se Stalin e Mao avevano distorto il comunismo, Pol Pot lo portò a un livello di follia che avrebbe fatto impallidire anche i peggiori dittatori della storia. Quando i Khmer Rossi presero il potere in Cambogia nel 1975, il loro obiettivo era chiaro: riportare la società a uno stato di purezza assoluta, eliminando tutto ciò che ricordava il capitalismo e la modernità. Il risultato fu un genocidio che causò la morte di circa due milioni di persone, un quarto della popolazione cambogiana.

Il regime di Pol Pot non si limitò a perseguitare gli oppositori politici: chiunque portasse occhiali, sapesse leggere o parlasse una lingua straniera era considerato un "nemico del popolo" e giustiziato. Le città furono svuotate, gli abitanti costretti a lavorare nei campi in condizioni disumane, e le esecuzioni di massa divennero la norma. I famigerati "Killing Fields" sono ancora oggi una testimonianza agghiacciante di uno dei regimi più brutali del XX secolo.

Eppure, di nuovo, qui non siamo di fronte al comunismo inteso come liberazione delle classi oppresse. Il comunismo di Pol Pot era un'ideologia deformata, un incubo totalitario che aveva più in comune con il fanatismo religioso che con il marxismo. Come scrive Hannah Arendt in Le origini del totalitarismo (1951), "Il totalitarismo non è l'essenza di un'ideologia, ma il suo degrado."

Quando il comunismo diventa il suo opposto

C'è un filo conduttore che lega Stalin, Mao e Pol Pot: tutti e tre hanno usato il comunismo come pretesto per costruire regimi autoritari in cui il potere era concentrato nelle mani di pochi. Se Marx ed Engels immaginavano una società senza classi e senza oppressione, questi leader hanno creato nuovi sistemi di dominio, in cui la repressione era giustificata dall'ideale rivoluzionario.

Eppure, questi tradimenti non significano che il comunismo sia intrinsecamente oppressivo. Sarebbe come dire che la democrazia è un sistema fallimentare perché ha prodotto leader corrotti e guerre ingiuste. Il problema non è l'idea in sé, ma l'uso che ne viene fatto. Stalin, Mao e Pol Pot non sono stati i prodotti inevitabili del comunismo, ma le sue aberrazioni.

Il vero comunismo, quello teorizzato da Marx, non è mai stato realizzato. È rimasto un'utopia, un'idea che continua a ispirare chi lotta contro le ingiustizie e le disuguaglianze. E forse, se vogliamo davvero valutare il comunismo in modo onesto, dovremmo smettere di giudicarlo attraverso i crimini dei suoi falsi profeti e iniziare a guardare a quello che ha realmente proposto. Ma di questo parleremo nel prossimo capitolo.

Il lascito positivo del comunismo: diritti e giustizia sociale

Se c'è una cosa su cui la storia è piuttosto chiara, è che le conquiste sociali non cadono dal cielo. I diritti non sono mai stati concessi per gentile concessione delle élite, ma sono stati strappati con la lotta, spesso al prezzo di sangue e sacrifici. E se oggi possiamo permetterci di parlare di sanità pubblica, istruzione gratuita e diritti dei lavoratori senza che nessuno ci prenda per visionari pericolosi, lo dobbiamo, in buona parte, al comunismo e alle sue battaglie.

Per quanto alcuni si ostinino a negarlo, il comunismo – o meglio, le sue istanze sociali – ha giocato un ruolo fondamentale nel plasmare il mondo moderno. Senza la minaccia di una rivoluzione, senza l'esempio dei paesi che almeno in teoria cercavano di costruire una società più equa, il capitalismo avrebbe continuato a operare nella sua forma più brutale, riducendo i lavoratori a semplici ingranaggi di una macchina produttiva senza alcuna tutela. Come scrisse il filosofo Étienne Balibar, "Il comunismo non è solo un'utopia, ma una forza storica che ha plasmato il mondo moderno."

Il lavoro non è sempre stato un diritto

Oggi diamo per scontato che esistano tutele per i lavoratori, che esistano il diritto alle ferie, il salario minimo, la pensione. Ma fino a un secolo fa, l'idea che un operaio dovesse avere delle garanzie era considerata quasi sovversiva. Il capitalismo dell'Ottocento trattava i lavoratori come carne da macello: turni di 14-16 ore al giorno, condizioni di sicurezza inesistenti, salari da fame. E i bambini? Anche loro nelle fabbriche, perché non c'era alcuna legge che vietasse lo sfruttamento minorile.

Fu grazie alla pressione dei movimenti comunisti e socialisti se le cose iniziarono a cambiare. Le prime leggi sul lavoro, la riduzione dell'orario lavorativo, il riconoscimento del diritto di sciopero furono tutte conquiste ottenute a caro prezzo. Senza la minaccia di rivolte operaie, senza la paura che il malcontento potesse sfociare in rivoluzioni, i governi non avrebbero mai concesso nulla. In Italia, il Partito Comunista e il Partito Socialista furono determinanti per l'approvazione dello Statuto dei Lavoratori (1970), che ancora oggi rappresenta una delle basi della legislazione lavorativa nel paese.

Sanità pubblica: un'idea rivoluzionaria

Pensiamo alla sanità pubblica. In molti paesi occidentali, è normale poter accedere alle cure mediche senza dover vendere un rene per pagare le spese ospedaliere (a meno che non si viva negli Stati Uniti, dove l'assenza di un sistema sanitario universale è un monito su cosa accade quando il profitto viene prima della salute). Ma l'idea che lo Stato debba garantire cure a tutti è, storicamente, una conquista di matrice socialista e comunista.

Il Regno Unito, per esempio, istituì il National Health Service (NHS) nel 1948 grazie alla pressione del Partito Laburista, fortemente influenzato dalle idee socialiste. Nei paesi scandinavi, la sanità pubblica è un pilastro della società, e non è un caso che siano stati proprio i partiti di sinistra a costruire questi modelli. Dove il comunismo (o almeno il socialismo) ha avuto un'influenza, la sanità è diventata un diritto. Dove il capitalismo ha avuto pieno controllo, la salute è ancora oggi trattata come un privilegio per chi può permetterselo.

L'istruzione come strumento di emancipazione

Anche il diritto all'istruzione è una conquista che dobbiamo alle battaglie comuniste e socialiste. Fino a pochi secoli fa, l'educazione era un privilegio riservato alle élite. I figli dei contadini e degli operai non andavano a scuola: servivano braccia nei campi e nelle fabbriche, non menti critiche in grado di mettere in discussione il sistema.

Fu con il diffondersi delle idee socialiste che l'istruzione pubblica divenne un obiettivo prioritario. L'Unione Sovietica, per esempio, trasformò un paese con tassi di analfabetismo altissimi in una delle nazioni più istruite del mondo nel giro di pochi decenni. Certo, il sistema sovietico aveva i suoi problemi, ma il principio secondo cui l'istruzione dovesse essere accessibile a tutti fu rivoluzionario. Oggi, l'idea che un bambino abbia diritto a un'educazione gratuita ci sembra ovvia, ma fino a non molto tempo fa era considerata un lusso.

In Italia, la riforma Gentile del 1923 rese l'istruzione obbligatoria fino ai 14 anni, ma fu solo con la spinta dei partiti di sinistra nel dopoguerra che il diritto all'educazione divenne realmente universale. Oggi, le università pubbliche e il sistema di borse di studio esistono grazie alla lotta di chi si è battuto contro l'idea che la conoscenza dovesse essere un privilegio per pochi.

Il welfare state: il compromesso tra comunismo e capitalismo

Molti paesi europei hanno costruito nel dopoguerra quello che viene chiamato welfare state, un sistema di protezione sociale che garantisce diritti fondamentali ai cittadini. Questo modello è nato come risposta alla minaccia comunista: i governi occidentali, per evitare che i movimenti socialisti prendessero il potere, hanno dovuto concedere riforme che migliorassero le condizioni di vita della popolazione.

Negli anni '50 e '60, l'Europa vide una crescita senza precedenti dello Stato sociale: pensioni, sussidi di disoccupazione, diritto alla casa. Tutto questo non è stato il frutto della bontà d'animo delle classi dirigenti, ma una strategia per evitare che il malcontento sfociasse in rivoluzioni. La socialdemocrazia scandinava è forse l'esempio più riuscito di questo compromesso: una fusione tra economia di mercato e valori socialisti, in cui il benessere collettivo non viene sacrificato sull'altare del profitto.

Il comunismo come forza storica

Oggi, quando si parla di comunismo, si tende a ricordare solo i suoi fallimenti, le dittature che ne hanno abusato, i disastri economici di alcuni regimi. Ma si dimentica il suo impatto positivo sulla società. Senza la pressione comunista, il capitalismo non avrebbe mai accettato di concedere diritti ai lavoratori. Senza l'esempio dei paesi socialisti, l'idea di un sistema sanitario pubblico non si sarebbe mai diffusa. Senza le lotte comuniste, l'istruzione sarebbe ancora oggi un privilegio per pochi.

Il comunismo non è stato solo un'utopia irrealizzata, ma una forza che ha costretto il mondo a cambiare. E anche se oggi il termine viene spesso usato come insulto, le sue idee hanno lasciato un'impronta indelebile sulla nostra società. Come scrisse Marx, "I filosofi hanno solo interpretato il mondo in modi diversi; ora si tratta di cambiarlo." E il comunismo, nel bene e nel male, ha contribuito a farlo.


Conclusione: Il comunismo non è il nazismo, e senza di esso non potremmo nemmeno permetterci di dirlo

E così, eccoci al punto di partenza. Dopo aver attraversato secoli di lotte, rivoluzioni, tradimenti e conquiste, possiamo finalmente rispondere alla domanda iniziale con la certezza che solo la storia – quella vera, non quella riscritta a uso e consumo del potere – può offrire: no, il comunismo non è paragonabile al fascismo o al nazismo. Non lo è nella sua essenza, nei suoi obiettivi, né nei suoi effetti sulla società.

Il fascismo e il nazismo sono nati con lo scopo dichiarato di opprimere, dominare, sterminare. Il loro cuore pulsante è la gerarchia, la violenza, la glorificazione della guerra e della disuguaglianza. Sono ideologie che non hanno mai avuto alcuna pretesa di liberare l'essere umano, ma solo di rafforzare il potere di pochi a scapito dei molti. Il comunismo, al contrario, è nato come un sogno di emancipazione, come un progetto di giustizia sociale. Certo, è stato distorto, tradito, trasformato in un incubo da chi lo ha usato per consolidare il proprio potere, ma questo non significa che l'idea in sé sia equivalente alle più brutali dittature della storia.

Eppure, oggi, l'equiparazione tra comunismo e nazifascismo è diventata un mantra ripetuto ossessivamente da editorialisti, politici e commentatori da bar. È il classico esempio di come la storia venga manipolata per servire interessi ben precisi. Perché se si riesce a far passare l'idea che il comunismo sia stato solo un'altra forma di totalitarismo, allora si può eliminare qualsiasi alternativa al capitalismo, si può negare che esista un modo diverso di organizzare la società. Si può, in sostanza, convincere le persone che l'unico sistema possibile è quello attuale, con tutte le sue ingiustizie, le sue disuguaglianze, le sue contraddizioni.

Ma il paradosso più grande è che proprio grazie al comunismo – o meglio, alle sue battaglie per i diritti – oggi possiamo permetterci di lanciare paragoni superficiali e semplificazioni storiche nei social, nei talk show e nei dibattiti pubblici. Senza le lotte comuniste e socialiste, non esisterebbe la libertà di espressione di cui abusiamo quotidianamente per ridurre la storia a un meme. Senza la spinta rivoluzionaria che ha costretto i governi a concedere diritti ai lavoratori, probabilmente saremmo ancora troppo impegnati a sgobbare 16 ore al giorno per avere il tempo di twittare "Comunismo e nazismo sono la stessa cosa" con la sicurezza di chi non ha mai aperto un libro di storia.

Il comunismo ha fallito? Forse. Ma ha fallito perché il sistema che voleva sostituire ha fatto di tutto per distruggerlo. E nonostante questo, ha lasciato un'eredità che ancora oggi ci permette di vivere in un mondo con più diritti, più tutele e più possibilità di scelta. Il nazismo e il fascismo, invece, hanno lasciato solo macerie e memoria di orrori che nessuno si sognerebbe di difendere.

Quindi no, il comunismo non è il nazismo. E se oggi qualcuno ha il tempo e il privilegio di affermare il contrario su Facebook o in qualche dibattito televisivo, lo deve proprio a quelle lotte sociali che il comunismo ha reso possibili. Ironico, vero?

Maurizio Potenza

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