Come si diventa Pazzi

La società ha sempre avuto bisogno dei suoi pazzi. Li ha celebrati come sciamani, perseguitati come streghe, rinchiusi come mostri e analizzati come casi clinici. La follia è uno specchio deformante che l'umanità evita, temendo di riconoscersi. Nelle società tribali, il folle era il ponte tra i mondi, colui che parlava con gli spiriti. Nell'antica Grecia, era il tramite con gli dei, un veicolo per il divino. Nel Medioevo, divenne il marchio del demonio, mentre l'Illuminismo lo considerò un'anomalia da correggere, un guasto da riparare. Oggi lo chiamiamo "disagio psichico," quasi a voler addomesticare la sua inquietudine con una terminologia scientifica.

Ma il concetto stesso di follia sfugge alle definizioni. È come un fiume carsico che scorre sotto la superficie della normalità, emergendo improvvisamente e travolgendoci nei punti più inaspettati. Non esiste una mappa per tracciarne il corso, ma possiamo seguirne le tracce come geologi che scavano nei sedimenti dell'anima, cercando di decifrare ciò che si nasconde nel profondo.

La danza dei neurotrasmettitori

La biochimica ci svela che la mente è un universo orchestrato da neurotrasmettitori: serotonina, dopamina, noradrenalina. Queste molecole regolano l'equilibrio tra emozioni, pensieri e percezioni, componendo una sinfonia che chiamiamo coscienza. Ma cosa accade quando questa danza si spezza? Quando il valzer diventa una tarantella selvaggia, oppure tace in un silenzio assordante? La follia non è un interruttore che si accende all'improvviso, ma un processo graduale. È come un termostato che, grado dopo grado, perde la sua taratura.

I primi segnali sono sottili, quasi impercettibili: un pensiero che si inceppa, ripetendosi in loop come un disco graffiato; un'emozione che cresce sproporzionata, come una cellula impazzita. La mente inizia a tracciare connessioni dove non esistono, come un ragno che tesse la sua tela nell'aria. A livello biologico, le sinapsi glutammatergiche, principali mediatrici dell'eccitazione neuronale, si aprono come porte che danno su mondi troppo vasti, quelli che Aldous Huxley chiamava "le porte della percezione." La realtà ordinaria si dissolve in un caleidoscopio di significati sovrapposti, come se il velo di Maya si lacerasse, rivelando l'abisso sottostante.

La plasticità cerebrale, la capacità del nostro cervello di adattarsi e riorganizzarsi, gioca un ruolo cruciale. Studi recenti mostrano che in condizioni di stress estremo o trauma, il cervello può sviluppare percorsi neurali alternativi. In alcuni casi, questa riorganizzazione porta alla resilienza; in altri, può condurre a stati mentali che percepiamo come follia. Non è un fallimento biologico, ma una risposta estrema a un ambiente impossibile.

La membrana che si sgretola

La membrana cellulare, quel sottile confine che separa l'interno dall'esterno, diventa una metafora della mente. Quando perde la sua permeabilità selettiva, la cellula muore. Allo stesso modo, quando i confini tra realtà e delirio diventano porosi, la mente inizia a contaminarsi. Le informazioni fluiscono senza filtro; i pensieri si accavallano come onde radio mal sintonizzate. È un processo simile all'autoimmunità: il sistema di protezione della mente si rivolta contro se stesso, divorando i propri pensieri e dubitando della propria realtà.

La neurobiologia ci insegna che il cervello di chi vive la follia non è difettoso, ma diversamente connesso. Come una rete elettrica che sviluppa percorsi alternativi, può generare cortocircuiti, ma anche nuove connessioni sorprendenti. Non è un caso che molti geni dell'arte e della scienza abbiano camminato sul sottile confine tra genialità e follia. Vincent van Gogh, ad esempio, dipingeva cieli vorticosi e campi di grano che sembrano pulsare di vita propria, ma questi stessi occhi capaci di intuizioni straordinarie lo conducevano in abissi di disperazione. Sylvia Plath, con la sua scrittura potente e viscerale, traduceva il suo dolore in poesie che ancora oggi risuonano, ma il costo emotivo della sua creatività fu devastante.

La follia come linguaggio escluso

Michel Foucault definiva la follia un "linguaggio escluso," qualcosa che la società sceglie di emarginare, di non ascoltare. Ma cosa escludiamo davvero quando etichettiamo qualcuno come pazzo? Forse quella parte di noi stessi che non riusciamo ad accettare: il caos primordiale che la civiltà ha cercato di domare, ma che continua a pulsare sotto la superficie. In molte culture indigene, ciò che chiamiamo follia viene interpretato come una connessione con il sacro. Lo sciamano, spesso colui che soffre di "visioni," è considerato il ponte tra il visibile e l'invisibile. In Occidente, invece, il diverso viene medicalizzato, rinchiuso o anestetizzato con farmaci, in nome di una normalità che è essa stessa una costruzione sociale.

Eppure, chi può definire cosa sia davvero normale? Nietzsche ci invita a considerare la follia non come un fallimento, ma come un momento di rottura necessario. "Bisogna avere il caos dentro di sé per partorire una stella danzante" scriveva. E se la follia fosse quel caos creativo, quella scintilla che ci permette di vedere oltre il velo della consuetudine?

La società come detonatore

La società moderna, con il suo bombardamento incessante di stimoli, crea un terreno fertile per la follia. Come un ecosistema sottoposto a stress, la mente può crollare sotto il peso delle aspettative, delle contraddizioni, delle maschere che siamo costretti a indossare. La follia diventa così l'ultima difesa dell'organismo contro una realtà diventata insostenibile. Non è un caso che le società più "avanzate" siano anche quelle con i tassi più alti di disturbi mentali. Come la febbre è una risposta del corpo all'infezione, così la follia può essere vista come il sintomo di un malessere più profondo, un grido dell'anima che cerca di sopravvivere.

La moderna epigenetica ci offre un altro spunto interessante: i nostri geni non agiscono in isolamento, ma rispondono all'ambiente, allo stress, persino alle relazioni umane. L'epigenetica ci insegna che i traumi, le pressioni sociali e persino l'amore possono modificare l'espressione genetica, accendendo o spegnendo interruttori che influenzano il nostro equilibrio mentale. In un certo senso, la follia è il prodotto di un dialogo continuo tra natura e cultura, tra biologia e società.

Conclusione: la saggezza del caos

La vera questione non è come si diventa pazzi, ma come si resta sani in un mondo che sembra aver smarrito la sua bussola. La follia, forse, non è l'assenza di ragione, ma la ragione portata al suo estremo, un tentativo disperato di trovare un significato in un sistema che si è frammentato. Come suggeriva Carl Gustav Jung, "Nell'oscurità della follia si nasconde la luce della saggezza."

In conclusione, non si "diventa" pazzi. Si smette di aderire a una normalità imposta, ma chi può definirne i confini? Come una cellula che muta, la mente si trasforma, cerca nuove strade: a volte si perde, altre scopre sentieri inesplorati. La mitocondria della coscienza, come la centrale energetica della cellula, può iniziare a produrre un'energia diversa, alterando ogni aspetto della percezione. Quando il velo della normalità si lacera, ciò che chiamiamo follia potrebbe essere, in realtà, uno sguardo più profondo sulla nostra vera natura.

Forse il caos della follia non è altro che un invito a danzare sul confine tra ordine e disordine, tra ragione e intuizione. In quel confine, come nell'universo, pulsa la vita stessa.


Prof. Marcus Theurel - Dipartimento di Filosofia Bioorganica - Università di Vienna


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