
Brubaker (1980, Stuart Rosenberg)
Data di uscita: 20 giugno 1980 (Stati Uniti)
Regista: Stuart Rosenberg
Candidature: Oscar alla miglior sceneggiatura originale
Anno: 1980
Casa di produzione: 20th Century Fox
Fotografia: Bruno Nuytten
Con Robert Redford, Yaphet Kotto, Jane Alexander (I), Morgan Freeman, David Harris
Descrizione
Nel grigiore di una prigione statale, Rosenberg intreccia un dramma carcerario con una crociata morale dove l'idealismo si scontra con la dura realtà del sistema. Henry Brubaker, incarnato da un Robert Redford dall'integrità luminosa quanto la sua chioma dorata, si infiltra in un inferno di cemento e sbarre dove la corruzione prolifera come muffa sui muri umidi.
La sua copertura da detenuto è pericolosa quanto un ballo con la morte, mentre attorno a lui guardie sadiche gestiscono un'impresa criminale mascherata da istituto di correzione. Nel cortile, un cimitero clandestino custodisce i segreti più oscuri di questo microcosmo putrefatto, dove i prigionieri sono ridotti a bestiame da sfruttare.
La fotografia esalta i toni grigi di questo universo claustrofobico, mentre la colonna sonora intesse una sinfonia metallica di cancelli che si serrano e sospiri di rassegnazione. Brubaker si erge contro il sistema con la determinazione di un crociato moderno, mentre i politici locali orchestrano il suo fallimento con la grazia di pachidermi in tutù.
«Questo posto non è una prigione, è un business» constata Brubaker, a cui un detenuto risponde con amara lucidità: «Sì, e noi siamo il bestiame». Sono scambi verbali che tagliano come lame di verità in un mondo imbottito di menzogne. Il finale vede Brubaker licenziato, la sua integrità intatta ma inutile come un faro in un porto abbandonato. Il sistema corrotto festeggia la sua vittoria, mentre la verità si raggomitola sconfitta in un angolo buio della storia.
Giudizio critico
Brubaker si distingue nel panorama dei film carcerari per la sua spietata analisi delle dinamiche di potere e corruzione istituzionale. Rosenberg costruisce una narrazione che va oltre il classico dramma carcerario, elevandolo a metafora della lotta tra idealismo e pragmatismo corrotto. La performance di Redford bilancia perfettamente carisma e vulnerabilità, mentre la regia austera enfatizza il realismo della storia. Il film si inserisce nella tradizione del cinema di denuncia sociale degli anni '70, pur mantenendo una sua unicità narrativa. La scelta di basare la storia su eventi reali aggiunge un ulteriore livello di profondità e rilevanza sociale all'opera.