
3 Musical da Vedere Assolutamente
I Musical: Un Genere Indigesto, ma Capace di Stregare Anche gli Scettici
Ah, il musical. Quel genere cinematografico che, come la liquirizia o l'ananas sulla pizza, non conosce mezze misure: o lo si ama alla follia, o lo si detesta con un'intensità quasi ideologica. Per alcuni, è la massima espressione dell'arte totale, capace di fondere canto, danza e narrazione in un unicum travolgente, un'esperienza sinestetica che rapisce i sensi e annienta il cinismo. Per altri, è una colossale presa in giro, un mondo in cui la gente si mette a cantare nei momenti meno opportuni, le coreografie nascono dal nulla con una sincronia sospetta, e nessuno si preoccupa del fatto che le leggi della fisica e del buon senso vengano allegramente calpestate.
Siamo sinceri: anche tra i cinefili più devoti, il musical è spesso guardato con un certo sospetto. È un genere che richiede una sospensione dell'incredulità superiore alla media, un'accettazione incondizionata di un universo in cui il dolore, la gioia e la rabbia vengono espressi con un assolo perfettamente intonato invece che con un grugnito di frustrazione o un pugno sul tavolo. Non tutti sono disposti a fare questo salto. Eppure, chi ha pianto sulle note di I Dreamed a Dream in Les Misérables o si è lasciato trascinare dall'energia viscerale di Grease sa che la musica, quando ben inserita nella narrazione, non è una distrazione, ma un acceleratore di emozioni, un amplificatore di significato.
Ma cosa succede quando il musical abbandona il suo lato più rassicurante, quando si sporca le mani con l'horror, il grottesco e il thriller psicologico? Quando lascia da parte il romanticismo zuccheroso e si immerge in atmosfere cupe, irriverenti e surreali? È qui che il genere diventa realmente interessante, capace di sorprendere anche i più scettici e di dimostrare che la musica può essere un veicolo perfetto per raccontare il bizzarro, l'inquietante e il sovversivo.
Dopotutto, se il rock può raccontare rivoluzioni, se il blues può dare voce alla disperazione e se il punk può urlare il malcontento generazionale, perché il musical non potrebbe essere il mezzo perfetto per narrare storie di follia, ossessione e vendetta? Ed è proprio in questo territorio che si muovono tre film straordinari, capaci di far ricredere anche chi pensa che il musical sia solo una questione di paillettes e zucchero filato: The Rocky Horror Picture Show, La Piccola Bottega degli Orrori e Il Fantasma del Palcoscenico.
Se avete sempre guardato i musical con diffidenza, preparatevi a cambiare prospettiva. E se invece siete già dei cultori del genere, mettetevi comodi: qui si parla di opere che vanno oltre il semplice intrattenimento, trasformando il canto e la danza in un'arma di ribellione, ironia e puro delirio visivo.
The Rocky Horror Picture Show (1975): Il Musical Cult che Ha Sconvolto il Cinema
Ci sono film che vengono visti, film che vengono amati, film che diventano cult. E poi c'è The Rocky Horror Picture Show, che ha trascinato il concetto stesso di "cinema" in un vortice di paillettes, trasgressione e delirio collettivo, trasformando le sale in teatri di performance spontanea e decostruendo qualsiasi convenzione narrativa con un sorriso malizioso. Diretto da Jim Sharman e tratto dal musical teatrale The Rocky Horror Show di Richard O'Brien, questo film non è solo un musical: è un rito di iniziazione, un'esperienza mistica che va vissuta più che guardata.
L'incipit è quasi una trappola per spettatori ignari: Brad e Janet, due fidanzatini dall'aria ingenua e perbene, si ritrovano con un'auto in panne nel cuore della notte, in quella che sembra una classica situazione da horror gotico. Ma basta varcare la soglia del castello del dottor Frank-N-Furter per capire che il film non ha alcuna intenzione di rispettare le regole del genere. Al contrario, le prende, le strappa in mille pezzi e le ricompone in una celebrazione del nonsense più sfrenato. Frank-N-Furter, scienziato pazzo e seduttore androgino, sta creando l'uomo perfetto, Rocky, una scultura vivente di carne e muscoli, un incrocio tra il mito di Frankenstein e una fantasia erotica da rivista patinata. Da qui in avanti, la storia abbandona qualsiasi pretesa di linearità narrativa e si trasforma in un tripudio di numeri musicali, citazioni cinematografiche, eccesso visivo e ironia sovversiva.
La colonna sonora è semplicemente irresistibile. Time Warp è molto più di una canzone: è un inno generazionale, un ballo rituale che ancora oggi viene replicato in ogni parte del mondo con la stessa devozione di un'antica danza tribale. Sweet Transvestite introduce Frank-N-Furter con un'energia talmente magnetica che Tim Curry, con il suo corsetto di pizzo e il suo sguardo ammiccante, diventa istantaneamente un'icona immortale. Ogni brano è un tassello in un mosaico di provocazione e libertà espressiva, un invito a lasciarsi andare, a dimenticare le convenzioni e a celebrare la fluidità dell'identità e del desiderio.
Ma il vero fenomeno di The Rocky Horror Picture Show non è solo sullo schermo, è nelle sale cinematografiche. Questo film ha creato un fenomeno unico nella storia del cinema: le proiezioni interattive. Nessun altro film ha sviluppato un rapporto così simbiotico con il suo pubblico. Dal lancio di riso durante il matrimonio di Brad e Janet, ai cori improvvisati che rispondono ai dialoghi del film, fino al lancio di toast durante il brindisi di Frank-N-Furter, ogni visione diventa una performance collettiva. Non si tratta più solo di guardare: si partecipa, si diventa parte della storia, si celebra il caos organizzato di un'opera che ha fatto dell'eccesso la sua bandiera.
Ma dietro il trucco pesante, i lustrini e l'anarchia narrativa si nasconde un'anima più profonda. The Rocky Horror Picture Show è, prima di tutto, un film sulla liberazione, sull'accettazione di sé e sulla decostruzione delle norme sociali. In un'epoca in cui il cinema mainstream era ancora rigidamente eteronormato e poco incline alla rappresentazione della fluidità di genere, questo film ha spalancato le porte a un'idea di sessualità e identità che oggi è più attuale che mai. È un inno alla libertà di essere chiunque si voglia essere, senza paura e senza vergogna, un manifesto queer mascherato da parodia kitsch del cinema di serie B.
A quasi cinquant'anni dalla sua uscita, The Rocky Horror Picture Show continua a essere proiettato regolarmente in tutto il mondo, con lo stesso entusiasmo e la stessa partecipazione del primo giorno. Non è solo un film, è un rituale, un'esperienza che trascende il tempo e le generazioni. E per chi non l'ha mai visto dal vivo, il consiglio è uno solo: trovate una proiezione interattiva, entrate senza preconcetti, e lasciate che Frank-N-Furter e il suo folle entourage vi trascinino in un viaggio che non dimenticherete mai.
La Piccola Bottega degli Orrori (1986): Quando l'Horror Incontra il Musical
Se il musical classico è un trionfo di romanticismo e buoni sentimenti, La Piccola Bottega degli Orrori è la versione cinica e grottesca di quella formula, un'opera che prende i sogni americani e li annaffia con sangue fresco. Diretto da Frank Oz—sì, lo stesso uomo dietro Yoda e Miss Piggy—questo film è la perfetta fusione tra commedia nera, horror e musical, un esperimento che sulla carta avrebbe potuto fallire miseramente e che invece è diventato un gioiello di culto.
L'origine di La Piccola Bottega degli Orrori è già di per sé un viaggio nel bizzarro. Tutto inizia nel 1960 con il film a basso budget di Roger Corman, girato in soli due giorni e mezzo con un budget ridicolo, una di quelle produzioni da "facciamolo veloce prima che qualcuno si accorga che stiamo usando lo stesso set di un altro film". Quella pellicola, per quanto grezza, aveva un'idea geniale: una pianta carnivora parlante che si nutre di esseri umani. Negli anni '80, la storia rinasce come musical teatrale e poi, nel 1986, arriva la versione cinematografica che conosciamo oggi, con un cast straordinario e una produzione che esalta il materiale originale, portandolo a un livello superiore.
Il protagonista è Seymour Krelborn, un timido e maldestro commesso in un negozio di fiori decadente, il classico perdente con il cuore d'oro che il cinema ama tormentare. La sua vita cambia quando scopre una pianta dall'aspetto esotico a cui dà il nome di Audrey II, in onore della sua dolce e insicura collega di lavoro, interpretata da una meravigliosamente sopra le righe Ellen Greene. Il problema? Audrey II non è una pianta comune. Non si accontenta di acqua e luce solare, ma cresce solo se nutrita con sangue umano. E non si tratta di una pianta passiva e silenziosa: ha una personalità esuberante, una voce profonda e seducente (fornita nella versione originale da Levi Stubbs dei Four Tops) e un piano ben preciso per dominare il mondo, un boccone alla volta.
Quello che rende La Piccola Bottega degli Orrori un capolavoro è il suo equilibrio perfetto tra il grottesco e il comico. Il film gioca con i cliché dell'horror anni '50, prendendone in giro le ingenuità e al tempo stesso celebrandone l'estetica. Le atmosfere sono volutamente esagerate, i colori saturi sembrano usciti da un vecchio technicolor, e la regia di Oz riesce a far convivere il tono da commedia slapstick con momenti di autentico inquietudine.
Le canzoni, scritte da Alan Menken e Howard Ashman—lo stesso duo che pochi anni dopo rivoluzionerà la Disney con La Sirenetta e La Bella e la Bestia—sono vere e proprie perle di ironia e melodramma. Suddenly, Seymour è un inno agli sfigati che sperano in un amore impossibile, mentre Feed Me (Git It) è un'esplosione di energia e malizia, con Audrey II che seduce e manipola Seymour come un diavolo tentatore in versione vegetale. Ogni brano è un perfetto esempio di come il musical possa essere usato per amplificare l'emozione e il ritmo della storia, senza mai risultare forzato o superfluo.
Ma la vera star del film è, senza dubbio, Audrey II. In un'epoca in cui la CGI non aveva ancora rovinato tutto con le sue creature digitali inconsistenti, la pianta è un miracolo di effetti pratici, un gioiello di animatronica che sembra viva in ogni movimento. Ogni espressione, ogni piega della sua bocca tentacolare trasuda personalità, rendendola uno dei mostri più memorabili della storia del cinema.
E poi c'è Steve Martin. Sì, perché in questo film c'è anche lui, nei panni di uno dei dentisti più sadici e deliranti mai visti sullo schermo. Il suo personaggio, un maniaco della poltrona odontoiatrica che prova piacere nel dolore altrui, è un esempio perfetto di come il film riesca a trasformare elementi di puro terrore in situazioni assurde e divertenti. Il suo duetto con Bill Murray (in un cameo esilarante) è una delle scene più folli e surreali di tutta la pellicola.
Ma dietro la sua facciata da commedia nera, La Piccola Bottega degli Orrori è anche una satira feroce sul consumismo e sull'ambizione sfrenata. Seymour, inizialmente innocente e ingenuo, si lascia corrompere dal successo che Audrey II gli garantisce, in una parabola che ricorda vagamente Faust, se Faust avesse firmato il patto con il diavolo in cambio di una carriera nel giardinaggio.
E poi c'è il finale. O meglio, i finali. Perché se siete abituati alla versione cinematografica con un epilogo relativamente lieto, sappiate che l'originale teatrale e il finale alternativo del film erano molto più cupi. Nella versione autentica, Audrey II prende il sopravvento, inghiottisce tutti i personaggi e conquista il mondo, in una sequenza apocalittica che sembra uscita da un film di Ray Harryhausen. Test screening troppo negativi hanno costretto la produzione a girare un finale più rassicurante, ma per i veri cultori il finale originale rimane l'unico accettabile.
In definitiva, La Piccola Bottega degli Orrori è uno di quei film che dimostrano come il musical possa essere molto più di una semplice esplosione di ottimismo e buoni sentimenti. Qui il canto e la danza non servono a celebrare l'amore, ma a raccontare una storia di orrore e ironia, in cui il destino dei personaggi è segnato dalla loro stessa avidità. È un film che riesce a essere inquietante e divertente allo stesso tempo, una perla del cinema che, come Audrey II, continua a crescere e a conquistare nuovi spettatori anno dopo anno.
E ricordate: se mai doveste trovare una pianta esotica che sembra troppo bella per essere vera, fatevi un favore. Non datele da mangiare.
Il Fantasma del Palcoscenico (1974): L'Opera Rock Visionaria di Brian De Palma
Ci sono film che si limitano a raccontare una storia e poi ci sono film come Il Fantasma del Palcoscenico, che prendono il cinema, lo smontano, lo frullano con un po' di horror gotico, lo immergono nel rock anni '70 e lo servono su un piatto d'argento con un ghigno beffardo. Diretto da un giovane Brian De Palma, prima che diventasse il maestro del thriller paranoico, questo film è un'opera rock che sfida ogni classificazione: parte da Il Fantasma dell'Opera, si contamina con Faust, strizza l'occhio a Il Ritratto di Dorian Gray e finisce per essere un ritratto spietato del mondo dello spettacolo, il tutto condito con una colonna sonora che è un'autentica gemma.
La storia ruota attorno a Winslow Leach, un compositore talentuoso ma ingenuo che sogna di vedere la sua musica trionfare sulle scene. Peccato che il destino abbia altri piani per lui, incarnati nella figura di Swan, un produttore discografico tanto carismatico quanto spietato. Swan, interpretato dal leggendario Paul Williams (che, tra le altre cose, è anche l'autore delle musiche del film), ruba la musica di Winslow e lo condanna alla rovina. Il povero compositore viene incarcerato, sfigurato in un incidente con una pressa per dischi (perché sì, anche il vinile può essere letale), e infine si rifugia nei meandri del teatro di Swan, trasformandosi in un fantasma vendicatore con un casco argentato che lo fa sembrare il cugino glam di Darth Vader.
Ma Il Fantasma del Palcoscenico non è solo una storia di vendetta: è una parabola sull'industria musicale, un'accusa feroce contro il potere che stritola il talento e lo trasforma in un prodotto usa e getta. Swan incarna il produttore discografico definitivo, un Mefistofele con il contratto già pronto da firmare col sangue, un uomo che vende l'anima degli artisti in cambio di successo e giovinezza eterna. Il suo mondo è un universo in cui l'arte è solo un mezzo per fare soldi, dove l'integrità creativa è un lusso che nessuno può permettersi e dove il successo arriva solo se si è disposti a sacrificare tutto, inclusa la propria identità.
Visivamente, il film è un'esplosione di creatività. De Palma, che già mostrava il suo amore per le inquadrature audaci e i movimenti di macchina ipnotici, costruisce un'estetica che mescola l'espressionismo tedesco con il rock decadente dei primi anni '70. Luci psichedeliche, angolazioni distorte, split screen che moltiplicano l'azione: ogni scena è un piccolo capolavoro di messa in scena, un delirio visivo che anticipa molte delle soluzioni stilistiche che il regista perfezionerà nei suoi thriller successivi.
La colonna sonora, scritta e interpretata da Paul Williams, è il cuore pulsante del film. Ogni brano è un piccolo tassello che racconta la discesa agli inferi di Winslow e il cinismo del mondo dello spettacolo. Si passa dal glam rock spietato di Goodbye, Eddie, Goodbye all'intensità malinconica di Old Souls, passando per la teatralità grottesca di The Hell of It. La musica non è solo un accompagnamento, ma un'estensione della narrazione, un commento ironico e tragico sul destino dei personaggi.
Ma il vero colpo di genio del film è la sua capacità di essere contemporaneamente una parodia e una celebrazione del mondo che critica. Il Fantasma del Palcoscenico prende in giro l'industria musicale, ma lo fa con una passione viscerale per la musica stessa. È un film che ama il rock, ama il teatro, ama l'arte, ma odia il sistema che riduce tutto a una merce. È un'opera che può essere letta come una favola morale, ma anche come un'esplosione di puro cinema, un'esperienza estetica che travolge lo spettatore con la sua energia.
E poi c'è il finale, un tripudio di caos e tragedia che chiude la storia con un senso di inevitabilità quasi shakespeariana. Non c'è redenzione per Winslow, non c'è giustizia per gli artisti sfruttati da Swan. Il sistema continua a girare, la macchina dello spettacolo non si ferma mai, e la musica—quella vera, quella autentica—viene sacrificata sull'altare del profitto.
Il Fantasma del Palcoscenico è un film che non ha mai ottenuto il successo che meritava al momento della sua uscita, ma col tempo è diventato un vero e proprio cult, amato dai cinefili, dai musicisti e da chiunque abbia mai sentito il peso del compromesso artistico. È un'opera visionaria e ribelle, un musical per chi odia i musical, un film che grida contro il sistema con la stessa disperazione del suo protagonista.
E, proprio come ogni leggenda rock che si rispetti, continua a vivere ben oltre la sua epoca.
Conclusione: Il Musical è Davvero Così Indigesto?
Dunque, il musical è davvero quella creatura zuccherosa e artificiale che molti evitano come la peste? Oppure è solo una questione di prospettiva? Se la vostra idea di musical si limita a persone che scattano in canti spontanei su prati fioriti o in strade di cartapesta, allora sì, forse è il momento di aggiornare il vostro archivio mentale. Perché, come dimostrano i tre film che abbiamo analizzato, il genere può essere molto più di una parata di sorrisi smaglianti e coreografie perfettamente sincronizzate.
The Rocky Horror Picture Show, La Piccola Bottega degli Orrori e Il Fantasma del Palcoscenico sono la prova vivente che il musical può essere anarchico, grottesco, persino disturbante. Non solo spezzano la tradizione del classico "boy meets girl, canta una canzone, vissero felici e contenti", ma lo fanno con uno stile che travolge, spiazza e lascia il segno. Qui la musica non è solo un commento alla storia: è la storia stessa. È un'arma, una trappola, un manifesto di ribellione.
Forse, più che il musical in sé, il vero problema è l'idea preconcetta che si ha di esso. Si pensa che sia un genere per sognatori, per chi vuole evadere dalla realtà con melodie rassicuranti e lieti fini obbligatori. Ma la verità è che il musical, come ogni forma d'arte, è un mezzo. E come ogni mezzo, dipende da come lo si usa. Può essere allegro e rassicurante, certo, ma può anche essere sovversivo, inquietante, persino brutale. Può prendere in giro il sistema, criticarlo, distruggerlo dall'interno a suon di accordi e strofe taglienti.
Quindi, se siete tra quelli che storcono il naso al primo accenno di una canzone in un film, fate un esperimento: guardate uno di questi titoli. Lasciatevi sorprendere, magari controvoglia. E poi ditemi se, alla fine, non vi ritrovate a canticchiare sottovoce un ritornello, magari senza neanche accorgervene. Perché il musical ha questo potere: entra nella testa, si insinua nel subconscio e, prima che possiate rendervene conto, vi ha già conquistati.
Sasha Bazzov